di Maurizio Patriciello

Allibito. Non per motivi etici, religiosi, politici, ma per le argomentazioni cui alcuni membri del Parlamento – santuario intoccabile della democrazia davanti al quale sono disposto a inginocchiarmi – si sono rifatti per ammettere la liceità dell’utero in affitto. L’argomento che si sta affrontando è importante. Si tratta della vita umana. Si discute della vita nascente, di come disporne, come servirla ne migliore dei modi; si tratta di mettersi nei panni dell’uomo nuovo che abbiamo chiamato al mondo. Le visioni, si sa, sono diverse. Il dibattito in aula, giusto e doveroso. Non si sta legiferando su “qualcosa” ma su “qualcuno”; su degli esseri umani, cioè, come noi, forse migliori di noi, di certo più giovani e sani di noi. Vera democrazia vuol dire anche questo: preoccuparsi, tremare, temere della sorte di chi ancora non è nato. Insomma, si sta parlando di cose serie. Serissime. E io mi aspetterei che lo si facesse in modo serio, serissimo. L’Italia – me compreso – è con il fiato sospeso. Ed ecco che dai banchi, tra le altre, si eleva la voce di una senatrice. Grida. Si dimena. Non m’ interessa come si chiami e nemmeno a quale schieramento appartenga. Una volta che arriva a sedere su quegli scranni, qualsiasi persona ha onori di cui godere e oneri da osservare. I dibattiti interni sono un’altra cosa. Per favore, onorevoli, abbiate rispetto di noi poveri elettori, cittadini che lavorano e tirano avanti con poche decine di euro al giorno. «L’utero non è mio? – argomenta la signora, e rivolta a chi la incalza -: è di chi è? È vostro? È dello Stato? Fino a prova contraria gli organi sono miei e ne faccio quello che voglio. È di Giorgia? Abbiamo appreso che l’utero delle donne italiane non è di loro proprietà ma dello Stato» afferma. Ma che dice? Non ricordo di aver sentito mai – dalle fila di qualsiasi schieramento – simili, pericolosissime, dichiarazioni. Eppure, tutto fa brodo.

La parlamentare insiste. Chiama in causa il Medioevo. Povero, bistrattato, misconosciuto Medioevo. Mi chiedo se tutti coloro che lo tirano in ballo sappiano almeno quando, da chi e perché fu inflitto quel nome – volutamente dispregiativo – a un’epoca di cui ancora godiamo qualche eredità. E per il timore di essere fraintesa porta un esempio: «Posso donare un rene? Perché non posso portare avanti una gravidanza per una mia amica?». Scienziati, uscite dai vostri laboratori e veniteci in aiuto. Non vi accontentate di parlare nelle aule universitarie, scendete tra il popolo, correte in Parlamento, dialogate con coloro che hanno il potere di fare o disfare le leggi. Chi vuole prendersi il merito di spiegarci che un rene è un organo voluta dal nostro Signore o – per chi non crede – dal caso, per rendere a noi poveri mortali la possibilità di depurare il sangue a costo zero e non morire avvelenati? Chi se la sente di ricordarci che si può vivere anche con un rene solo? E che donarne uno a chi rischia di morire è senz’altro un grande atto di amore? La funzione dell’utero non è paragonabile minimamente a quella del rene. Siamo su un altro pianeta. Intanto, la donna non ne possiede due ma uno solo. È sempre da nostro Signore – o dal caso per chi non crede – è stato elevato a una missione altissima, essere la prima, calorosa, stupenda culla dell’uomo che sta per nascere. Un uomo nuovo che ha già stabilito con la donna che lo ha chiamato in vita e lo porta dentro, un rapporto unico, irripetibile. Un’osmosi affascinate si è instaurata fra loro. Il frutto del lavoro del rene è la pipì, liquido tossico di cui tutti, senza rimpianti, appena possiamo, ci liberiamo. Il frutto dell’utero è un essere umano come me, il Papa, Leonardo da Vinci, Carlo Magno, Mina o Pirandello. Un essere umano nei confronti del quale tutti – a cominciare da chi lo mette al mondo – abbiamo tantissimi doveri e appena qualche diritto. Venderlo – perché, checché se ne dica, di questo si tratta – significa – e lo abbiamo visto con la guerra in Ucraina – rapinare a questo capolavoro fragile e indifeso i suoi diritti.

Lui ha il diritto di rimanere con la sua mamma. Ha il diritto di non essere commercializzato. Ha il diritto di sapere chi sono coloro da cui ha ereditato i caratteri somatici, il colore della pelle, le turbe psichiche, i geni e tante altre cose. Signora senatrice, la donna di cui si parla non sta prestando l’utero, sta vendendo il figlio. E chi è che è disposto ad affrontare una gravidanza – con le sue gioie, i suoi pericoli, i suoi risvolti psicologici – per poi disfarsi della propria creatura se non le donne – le donne, sempre loro, abusate e maltrattate da secoli, anche da chi dice di difenderle – povere, dei Paesi più poveri che arrancano sulla terra? Possibile che questo discorso elementare non venga, o non voglia, essere compreso? Ovviamente, sono contento del risultato raggiunto. Sono convinto che l’utero in affitto – ma meglio sarebbe dire “il figlio sulla bancarella” – sia un obbrobrio.

Lancio una sfida, propongo un esperimento, mi permetto di dare un consiglio. La sfida: nel momento in cui sapremo che donne ricche dei Paesi ricchi, hanno fecondato e partorito – gratuitamente! – un figlio per una qualsiasi donna sconosciuta e povera di un Paese poverissimo, sono disposto – parola! – a rivedere la mia posizione. L’esperimento: proviamo a immaginare che cosa accadrebbe se tutti i maschi del mondo si rifiutassero di fecondare le donne. Il genere umano sarebbe annientato nel giro di pochi decenni. L’argomento, affascinante e terribile, avrebbe meritato ben altre argomentazioni. Anche la mano che sta battendo in questo momento i tasti del computer è mia, ma il pugno che potrei dare sul naso del mio vicino, no. Il consiglio: nessuno pretende che si conoscano i poderosi studi di Jacques Le Goff sul Medioevo, ma una sbirciatina a qualche vecchio libro di scuola si potrebbe anche dare.

Fonte: Avvenire