L’intervento di Pedro Morandè Court, professore di sociologia presso l’Università Cattolica del Cile, al VII incontro mondiale delle Famiglie
Il beato Giovanni Paolo II scrisse nella Centesimus Annus: “La prima e fondamentale struttura a favore dell’«ecologia umana» è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell’uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino” (n39). In queste frasi viene sintetizzato in modo eccezionale ciò che significa il lavoro per la famiglia. Da una parte, certamente procurare il sostentamento materiale della vita, senza il quale non può esserci sviluppo umano. Ma ancor più fondamentale è educare i figli nella verità e nel bene, amarli in modo che possano scoprire la dignità con cui sono stati chiamati all’esistenza dal Creatore, educarli alla conquista della loro libertà interiore per affrontare umanamente il loro destino unico e irripetibile.
Tutta l’evidenza empirica, oggi, rispetto all’educazione e all’origine delle disuguaglianze sociali, indica che l’educazione dei bambini nei primi anni di vita è decisiva per il loro sviluppo posteriore, generandosi precisamente in questa fase dello sviluppo umano, la maggiore distanza sociale tra chi ha ricevuto attenzione, accoglienza e stimoli emozionali nei confronti delle loro abilità cognitive e chi non l’ha ricevuta. La scuola non è capace di correggere posteriormente ciò che i genitori e la famiglia non hanno fatto a suo tempo. Per questo, la relazione tra famiglia e lavoro non è estrinseca, ma intrinseca, non è un peso che la società impone alle persone e alle famiglie, ma è piuttosto il risultato della dignità co-creatrice che ha voluto dare agli esseri umani il disegno divino sulla creazione.
Il magistero sociale della Chiesa ci ha insegnato che tutta l’attività umana appartiene all’ambito del lavoro. Non solo quella che viene remunerata dalla società, ma anche, quella che si offre gratuitamente come un dono alle altre persone e alla comunità a cui si appartiene. Tutte le persone lavorano sempre più di quanto siano retribuite economicamente. Se questo vale per tutti gli ambiti della vita sociale, a maggior ragione si applica alla famiglia, che gratuitamente ci insegna molti aspetti essenziali della vita, come per esempio, a controllare il nostro corpo, i suoi movimenti, il suo ritmo. Ci insegna anche il sempre complesso linguaggio materno, con le differenze e sottigliezze tra la fattualità degli eventi dell’attività umana e le ipotesi relative alla sua possibilità passata e futura. In famiglia impariamo anche la moralità degli atti umani e ad assumere la responsabilità rispetto alla dignità della nostra condotta sia in relazione a noi stessi che in relazione al prossimo. In essa, impariamo a condividere anche la stima per la saggezza, per i beni spirituali che abbiamo ricevuto come doni di chi ci ha preceduto nell’esistenza e, in special modo, il dono della fede. Per tutto ciò, il magistero sociale della Chiesa ci ha insegnato che il lavoro non ha solo una dimensione oggettiva in quanto produce beni commerciabili e intercambiabili, che costruiscono il tessuto sociale, tanto a livello locale, come regionale e mondiale, ma anche una dimensione soggettiva, non commerciabile, che costruisce la nostra propria persona e che stimola la crescita della libertà per offrirsi agli altri, con rispetto e dignità.
Il lavoro appartiene al dinamismo della libertà e della creatività umana per mezzo delle quali trasformiamo il mondo per soddisfare le necessità delle persone. Senza questa soddisfazione non potrebbe esserci una convivenza pacifica e giusta tra i popoli. Tuttavia questa soddisfazione dei bisogni non si ottiene solamente attraverso l’acquisizione di beni di consumo commerciabili. Certamente, per la la maggior parte delle persone, il lavoro remunerato è la principale fonte delle loro entrate per sostenere se stessi e la propria famiglia. Ciò nonostante, il lavoro eccede la sua retribuzione per l’amore con cui si realizza, per la libertà che si mette in gioco, per l’innovazione e la creatività che propone. Il lavoro è la risposta effettiva che gli esseri umani danno al dono della vita e a tutti gli altri doni che ricevono dai loro antenati, dai loro progenitori, dalle loro famiglie, dai loro maestri. È un elemento essenziale della reciprocità dei vincoli sociali, a partire dai quali si produce una convivenza pacifica tra le persone, si genera fiducia, desideri di cooperazione e aiuto reciproco. In una parola, il lavoro aiuta le persone a scoprire la propria vita come vocazione, come quella esortazione che ricevono dagli altri a sviluppare i loro talenti, le loro virtù, la pienezza della loro libertà.
Queste considerazioni preliminari sono molto importanti per le novità che presenta il lavoro nella nostra epoca. Vorrei menzionare, in primo luogo, che viviamo in una società che alcuni scienziati sociali denominano “postindustriale” e questo significa che il dinamismo creatore dell’economia e della società nel suo insieme si è trasferito dalla produzione su grande scala che le persone e le macchine realizzavano nell’industria, alla conoscienza, all’innovazione tecnologica, alle comunicazioni, al settore dei servizi. “Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro” dice la Centesimus annus (n 32).
Questa trasformazione ha cambiato molto profondamente le relazioni del lavoro e la sua relazione con la famiglia. Anche se l’espressione non è completamente soddisfacente, la famiglia si è trasformata in un fattore essenziale nella formazione del “capitale umano”. Già abbiamo menzionato l’importanza dell’educazione nei primi anni dell’infanzia. A questa poi si aggiunge il desiderio di sapere, di progredire, di servire gli altri e la società nel suo insieme. Le fonti della conoscenza e dell’informazione sono sempre più a disposizione delle persone. Tuttavia il desiderio di acquisire questo sapere, di farlo proprio, d’intraprendere a partire da questo, un lavoro creativo al servizio del bene comune, dipende dalla libertà di ognuno e dalla perseveranza con cui si pratica la auto-formazione continua. Vale a dire, ha bisogno della comprensione della vita umana come vocazione e questo può percepirsi solo nella comunione con le altre persone; ed è proprio la famiglia la maggiore e più frequente esperienza di comunione che sperimentano le persone.
Questi cambiamenti sociali rappresentano nuove opportunità per la famiglia e per la società, però anche nuovi rischi che mettono in evidenza la sua precarietà.
Prima di fare un bilancio di questi ultimi, vorrei completare l’elenco dei nuovi avvenimenti, che è necessario considerare. Dunque, il secondo fattore sociale determinante della nostra epoca è stato l’inserimento della donna nel mercato del lavoro remunerato, che è stato possibile nel contesto sopra descritto per il suo accesso previo all’educazione, inclusa l’educazione superiore.
Mi sembra che questa sia stata la rivoluzione sociale più importante del XX secolo. Si tratta di una processo ancora in corso, con importanti ritardi nei paesi emergenti e nei paesi sottosviluppati, dove mancano ancora grandi inversioni nell’ambito educativo. Con tutto ciò, sembra essere un processo irreversibile che ha cambiato sostanzialmete le relazioni del lavoro e anche il volto degli spazi pubblici della società. All’inizio, si sono aperti timidamente posti di lavoro per lavori tipicamente femminili. Invece nel suo decorso, l’incorporazione della donna al mercato del lavoro comprende già tutti gli ambiti sociali, inclusi quelli che prima erano considerati tipicamente maschili, come le miniere, le costruzioni, la ricerca scientifica, le forze armate, la polizia e molti altri. Anche nell’esercizio del potere politico le donne hanno mostrato abilità e talenti che permettono loro di competere vantaggiosamente con gli uomini.
L’ingresso della donna nel mondo del lavoro salariato non ha significato solamente un riconoscimento del valore sociale della condizione femminile come tale, piuttosto ha significato una profonda redifinizione dei ruoli sociali influendo sulla società nel suo insieme.
Innanzi tutto ha aiutato alla crescita economica potendo la società disporre di un maggior numero di risorse umane qualificate e di maggior varietà di specializzazioni. La donna ha qualità naturali e abilità sociali che non necessariamente devono competere con quelle maschili, quanto piuttosto completarle. Le aziende, da parte loro, hanno dovuto organizzarsi e disporre di servizi che prima non avevano. Le leggi sociali hanno dovuto riconoscere l’astensione per maternità per la donna, e anche per la cura dei figli minori quando si ammalano. Si sono dovuti creare asili nido nei luoghi di lavoro secondo determinate condizioni, istituire il lavoro part time e aumentare la flessibilità lavorativa. Giuridicamente si è dovuto riconoscere la capacità delle donne di amministrare i beni e, nel caso delle donne sposate, di amministrarli con i rispettivi coniugi.
Per la famiglia un secondo stipendio ha significato il rafforzamento del suo potere d’acquisto e la sua capacità di investire, che non sempre ha significato anche un maggior consumo, ma anche un risparmio e inversione. La situazione di questo aspetto è molto distinta nelle differenti regioni del mondo conformemente al grado di sviluppo sociale dei paesi. Ciò nonostante, in generale, possiamo affermare che ha facilitato la progressiva scomparsa del proletariato e l’aumento del ceto medio con aspettative di mobilità sociale ascendente. Le famiglie cominciano a spendere meno in alimenti e di più in dotazioni per la casa, particolarmente di alta tecnologia, e anche in automobili, in vacanze, viaggi e uso del tempo libero.
D’altra parte, però, le donne hanno dovuto assumere, almeno durante un periodo di transizione che ancora non è terminato, il doppio lavoro: la loro professione e i lavori domestici. La ridefinizione dei ruoli all’interno della famiglia non è stata semplice. Gli uomini hanno dovuto assumere, almeno parzialmente, lavori domestici, occupandosi della cura e della salute dei figli e della loro educazione. Abituati a essere gli unici sostenitori della famiglia, si sono dovuti abituare all’idea che le loro mogli possono avere entrate superiori alle proprie o assumere incarichi di leadership e responsabilità di gerarchia superiore, e questo ha ferito, a volte, la loro autostima. Tuttavia forse, la cosa più importante, è che hanno dovuto accettare che le loro mogli possano essere economicamente autosufficienti e che l’antica dipendenza dalla casa vada rieducata accettando, riconoscendo e valorizzando la libertà di esercitare la propria professione o mestiere e di realizzare il proprio progetto di vita.
Le opportunità introdotte nella famiglia da questa ridefinizioni dei ruoli ha una relazione essenzialmente con la qualità della vita, non solo materiale, ma anche spirituale. Per le coppie sposate ha significato un approfondimento della loro relazione di reciprocità e complementarietà, comprendendo che i talenti di entrambi devono condividersi in una vita costruita quotidianamente in comune. Per i padri ha significato anche un avvicinamento alla realtà dei figli, preoccupandosi della loro cura e della loro educazione: ciò ha sviluppato un vincolo emozionale normalmente sconosciuto in precedenza.
Questi cambiamenti, però, hanno portato anche nuovi rischi che hanno mostrato la precarietà della vita matrimoniale. In primo luogo, hanno fatto del matrimonio una relazione più personalizzata e, quindi molto più esigente, con la conseguenza di una maggior frequenza di rotture matrimoniali quando le relazioni sono immature e unilaterali. Se si produce una rottura della convivenza, nella maggior parte dei casi la tutela dei figli è affidata alla madre, generando così in essi l’esperienza del “padre assente”, che è diventata una vera cultura nella nostra epoca. I figli educati in assenza di padre, a loro volta, rimangono infantili e immaturi, retro-alimentando il circolo delle rotture matrimoniali, specialmente in età giovane e con pochi anni di convivenza. Tutti i fattori menzionati sono strettamente vincolati e si rafforzano tra sé, in modo tale che i matrimoni e le famiglie dovranno imparare a controllare i rischi di rottura della convivenza accentuando la donazione reciproca, la fiducia nella vocazione umana di ogni membro della famiglia, il rispetto della dignità inalienabile di tutti i membri e la qualità spirituale della cultura che vanno forgiando in comune.
Anche gli scienziati sociali hanno osservato altri rischi vincolati all’educazione di livello superiore della donna e al suo inserimento nel mercato del lavoro, quali il rinvio dell’età in cui contrarre matrimonio dopo aver terminato gli studi, il rinvio della nascita del primo figlio fino a che la coppia si senta sicura della loro relazione, la formazione di famiglie piccole e la distanza tra le nascite quando ci sono più figli. In termini estremi, questo può significare che la donna veda la natalità prima come un problema che come una benedizione di Dio che dona la vita al matrimonio e la pone sotto la sua cura per la sua crescita ed educazione. Forse però il rischio più importante per il matrimonio e la famiglia è che i metodi anticoncezionali attualmente in uso, tanto preventivi come i così chiamati di “metodi di emergenza”, lasciano la decisione della concezione unilateralmente in mano alla donna se ella così decide, potendo questa situazione generare sfiducia nei coniugi che disconoscono i procedimenti usati effettivamente dalle loro mogli. Questo non si applica solamente nel caso di interruzione di una gravidanza, ma anche quando la si desideri. Per esempio, nel caso delle madri adolescenti, la ricerca empirica più recente ha dimostrato che queste madri desideravano tenere i figli per consolidare la loro situazione di vita all’interno della loro famiglia d’origine, senza che importasse più di tanto chi fosse il padre il quale, normalmente risulta essere un uomo maturo di età abbastanza superiore dell’adolescente.
Infine, nel caso del continente latinoamericano, si deve considerare l’alta proporzione dei figli nati fuori del matrimonio. Anche se non si conoscono ancora tutti i fattori in gioco, questo si spiega, in parte, grazie alla tradizione storica di una società nata originalmente dall’incrocio di razze, in parte, dalla diminuzione dei matrimonio e dall’incremento del divorzio tra coloro che lo hanno celebrato. La convivenza consensuale degli uomini e delle donne che non contraggono matrimonio sta diventando una pratica abituale, specialmente tra i giovani e la società ha smesso di considerare questa condotta negativamente piuttosto l’ha legittimata.
Come si può valutare, i rischi introdotti da questa nuova posizione della donna nella società possono essere abbastanza gravi e frequenti, se si paragonano con quelli delle epoche passate. Questa precarietà, però, dimostrata dalla vita coniugale e familiare non deve oscurare le enormi opportunità aperte alla famiglia tanto nella gioia di un miglior standard di vita, di una educazione più attenta e di un lavoro più creativo e produttivo che accresce la interdipendenza sociale, la reciprocità e la collaborazione congiunta al bene comune. Affinché queste opportunità vengano rafforzate, è indispensabile creare una cultura del lavoro attenta alle nuove caratteristiche dell’era “post industriale”. La semantica, a volte dominante, è erede ancora della condizione del lavoro manuale dell’epoca dell’industrializzazione e dell’introduzione delle macchine, che enfatizza la fatica del lavoro e la bassa remunerazione ottenuta in cambio. Di preferenza si associava questa cultura al lavoro maschile. Queste condizioni sono tuttavia cambiate nell’attualità. Così come il beato Giovanni Paolo II ha rinnovato profondamente la teologia del matrimonio e della famiglia nell’interpretare l’ “immagine e la somiglianza di Dio” dell’essere umano, partendo dalla complementarietà dell’uomo e della donna e del dono reciproco della loro umanità, così questo principio teologico-antropologico dovrebbe estendersi all’ambito della cultura del lavoro, perché la partecipazione congiunta dell’uomo e della donna nella formazione del “capitale umano” avanzato, nel disegno e prestazione dei servizi alla persona e dei suoi bisogni, nella costruzione dell’immagine delle organizzazioni e del buon clima lavorativo, risulta attualmente indissociabile.
Alcune aziende hanno già cominciato a “interiorizzare” queste nuove condizioni e si sforzano di creare condizioni di lavoro per la donna che rendano compatibile il suo doppio ruolo di lavoratrice e di madre che ha la cura de i propri figli. C’è però, ancora tanto da fare, specialmente affinché le società considerino come priorità i nuovi problemi pratici generati dall’inserimento della donna nel mondo del lavoro remunerato. La possibilità del lavoro a distanza, favorito dalla comunicazione elettronica, genera condizioni tecnologicamente sufficienti per risolvere alcune di queste situazioni. Ciò nonostante, questo esige da parte dei lavoratori, uomini e donne, un’amministrazione più razionale del tempo che si distribuisce tra casa e lavoro e attualmente anche il tempo dedicato all’educazione continua e la costante attualizzazione che esige la velocità dell’innovazione tecnologica. Anche se esiste una formazione di base del “capitale umano” che si estende per tutta la vita, la conoscenza ha bisogno di un costante perfezionamento e attualizzazione, esigendo a sua volta, tempo dedicato a questo compito. Alcune aziende realizzano tutto ciò da sé stesse, ma in molti casi, affidano questo servizio a esterni e i lavoratori devono raggiungere altri luoghi, a volte lontani, per fare formazione. Per le famiglie questo rappresenta, senza dubbio, un sacrificio che i loro membri possono assumere felicemente se si è riusciti a costruire un’esperienza di comunione sufficientemente forte da poter comprendere le necessità generate dalle fonti di lavoro. Quando manca quest’esperienza, i membri della famiglia generano sentimenti di risentimento e recriminazione reciproca che minano la convivenza, mettendola a rischio di distruzione.
La situazione prima descritta può essere aggravata anche nei casi in cui esistano persone anziane con malattie croniche o che non possono più auto gestirsi. Sappiamo che, almeno nel caso del mondo occidentale, la popolazione sta invecchiando rapidamente. Naturalmente, ci sono importanti differenze nel ritmo di questo invecchiamento a seconda dei paesi e delle regioni, ma il processo di transizione demografica è di portata mondiale e, come ben sanno i demografi, c’è bisogno di secoli per rinvertirlo. Tradizionalmente sono state le donne coloro che hanno assunto le cure palliative degli anziani, sia che si trovino in casa sia in case specializzate che si dedicano alla loro cura. Che sia in modo diretto o indiretto, però, queste cure palliative finiscono per influire sulla famiglia completa, a causa delle risorse economiche impegnate, del tempo di dedizione e dell’affetto e rispetto dovuto alle persone che soffrono questa situazione.
La crescita della speranza di vita al nascere, tanto negli uomini quanto nelle donne, anche se nel caso di queste ultime raggiunga ancora più anni, pone una nuova sfida sociale rispetto al mantenimento delle fonti del lavoro per gli adulti di maggiore età. Negli ultimi anni abbiamo assistito a discussioni, in quasi tutti i paesti rispetto all’etá del pensionamento e alla tensione tra l’alta disoccupazione giovanile e il desiderio di rimanere più anni nel lavoro delle persone in buono stato di salute. Alcuni di questi adulti vivono soli e l’abbandono del lavoro non solo diminuisce sostanzialmente le loro entrate, ma deteriora anche la loro autostima e si sentono in situazione di abbandono. D’altra parte, non tutte le famiglie sono in condizioni di farsi carico degli adulti, in una età in cui le spese mediche sono più costose crescono i premi delle assicurazioni sulla salute. Manca ancora molta immaginazione sociale per generare impieghi adeguati a queste persone, che tengano conto della loro esperienza e anche delle loro condizioni particolari di gestione del tempo e di resistenza alla fatica. In sostanza, sarà senza dubbio uno dei problemi sociali più acuti del nostro secolo quando l’effetto della transizione demografica si completata. In diversi paesi si è cercata una soluzione nel turismo degli adulti degli anziani, però sono molti quelli che non possono permettersi questo lusso e hanno bisogno di mantenere una fonte d’ingresso tramite il lavoro. Se il lavoro realizzato è stato, inoltre, creativo e innovatore, con un’alta componente della vita intellettuale, e se si è sperimentato come vocazione, risulta indispensabile che la società faccia uno sforzo per mantenere la vita lavorativa nel contesto dell’attuale speranza di vita, che supera di molto l’attuale età di pensionamento, ereditata dalle condizioni del passato.
Dopo aver analizzato alcuni problemi sociali specifici che creano sfide particolari per la società e le famiglie, vorrei fare un bilancio più globale sulle opportunità e precarietà che la nostra epoca presenta alla famiglia e al lavoro. Durante il secolo XIX il lavoro è stato considerato essenzialmente come “forza lavoro”, concetto che implica che tutti gli esseri umani sono relativamente equivalenti sul piano lavorativo. Con l’introduzione della catena di montaggio, anche se ha richiesto una maggiore specializzazione e dimestichezza, la direzione del processo di lavoro non rimaneva nelle mani del lavoratore, ma era condotta dal ritmo della macchina. Questo è cambiato completamente nell’era “post industriale”, in cui la catena di montaggio si è robottizzata completamente e si chiede ora ai lavoratori di interagire con le macchine intelligenti e sviluppare abilità molteplici, che non si limitino all’orizzonte cognitivo, ma che includano anche “abilità sociali”, come la capacità di lavorare in team interdisciplinari, capacità d’iniziativa e leadership, collaborare con la creazione di un buon clima lavorativo, pensare alla soddisfazione delle necessità dei clienti, gestire data-base e generare informazione. Lo sguardo sul lavoro non si limita, di conseguenza, a quello che succede all’interno della fabbrica, ma esige alzare lo sguardo verso la sviluppo d’insieme della società, verso le sue richieste e bisogni. In poche parole, si richiede disponibiltà costante verso i clienti e consumatori, competenza, efficienza e cortesia o amabilità nella presentazione dei servizi che si sollecitano. Per questo si usa dire attualmente che il “capitale umano” richiesto include anche “capitale sociale”, come capacità di lavorare in ampie reti di collaborazione e “capitale culturale”, come la capacità di costante attualizzazione delle conoscenze e di sviluppo delle più raffinate abilità personali che includono una più acuta percezione, un miglior dominio del linguaggio, sia del proprio, come anche delle lingue straniere, una maggiore tolleranza alla frustrazione quando non si raggiungono i risultati sperati e una maggiore perseveranza per ricominciare il cammino. Per così dire, il lavoro si è fatto sempre più sociale. Se prima si focalizzava verso l’appropriazione e domino della natura, l’ esigenza attuale dell’uomo è l’aggregazione del valore ai prodotti del lavoro e ai servizi tanto per l’opportunità o per la qualità delle relazioni sociali che rende possibili.
Questo spiega, in buona misura, perché il lavoro sia sparito, in un certo senso, dal vocabolario e dalla semantica contemporanea, ad eccezione di quando sopravviene la disoccupazione. Il lavoro coincide ora con l’attività umana stessa, qualsiasi essa sia, se è capace di aggregare valore alle relazioni sociali. Si è separato anche dallo stesso concetto di necessità che si impiegava per la razionalizzazione dell’attività economica durante il XIX secolo, dato che le società e le persone producono e consumano ora molto di più di quello di cui hanno bisogno. Per qualcuno, il vincolo tra lavoro e aggregazione di valore conduce inesorabilmente al predominio di una mentalità economicista. Effettivamente, può verificarsi questa distorsione. Non c’è nessun bisogno però, che questo avvenga nel contesto della società attuale. Un buon esempio di questo è l’industria del turismo, che è fiorita con i nuovi mezzi di trasporto e comunicazione e che definisce i prezzi sulla base della qualità dell’attenzione alle persone. Potremmo anche menzionare l’industria dell’educazione, la quale si è effettivamente industrializzata sul piano mondiale, che fissa i suoi prezzi per la qualità delle risorse umane di cui dispone e per la qualità dei risultati ottenuti per chi si sottomette ad essa. Il vincolo tra lavoro e aggregazione di valore non rimane limitata ai prodotti di consumo, ma si estende ai beni spirituali della società, che si producono esclusivamente per la cooperazione sociale e solidale tra le persone.
Penso che questo contesto sociale dell’evoluzione del lavoro rappresenti una grande opportunità per la famiglia, dato che essa stessa è la gran formatrice delle persone, specialmente nella loro prima infanzia. La scuola, l’università e i mezzi di comunicazione potranno offrire in seguito conoscenze e informazioni, ma le attitudini verso la conoscenza e l’informazione, la curiosità intellettuale, il lasciarsi provocare intellettualmente ed emozionalmente dalla realtà, la commozione davanti a tutto quello che esiste, particolarmente verso gli altri esseri umani, sono virtù che si alimentano della libertà interiore, che non è ne sarà mai un prodotto dell’industria, ma che nasce dell’esperienza di comunione vissuta con altri e che comincia certamente nel seno della famiglia. Anche nel caso delle famiglie distrutte a causa dell’infedeltà, dell’indifferenza o della violenza è possibile trovare le orme originarie di una esperienza di comunione rotta. La formazione della personalità e del carattere è intimamente legata alla coscienza del fatto che solamente possiamo venire all’esistenza in virtù dei nostri progenitori e che essi, dei loro, in un lungo e delicato filo ontogenetico che risale alla misteriosa origine della vita umana, fino al Creatore. Questa coscienza non è solo né primariamente biologica, come di fatto è spiegato spesso in modo unilaterale, ma prima di tutto antropologica e sociale. Nasciamo da una relazione tra uomini e donne, nasciamo da una comunione, e prendiamo coscienza di essa abitando nel linguaggio che ci hanno dato, che si sostiene, a sua volta, in questa misteriosa convivenza di coloro che parlano questa lingua.
Che il lavoro sia identificato nell’attualità con tutta l’attività e comunicazione umana, simultaneamente materiale e spirituale, mondana e trascendente, se essa crea l’aspettativa di aggregazione di valore, mi sembra una grande conquista storica-evolutiva della realtà sociale, in cui la famiglia ha un luogo di risalto. Sorge allora la domanda: perché avendo condizioni sociali così favorevoli la famiglia si presenta come un’istituzione svalutata e, in alcuni contesti sociali, come quello europea, come un’istituzione sulla soglia dell’estinzione? Una situazione come questa, richiede, certamente, molteplici spiegazioni. Vorrei suggerirne alcune. In primo luogo, molte delle funzioni che prima svolgeva la famiglia sono oggi realizzate da altre istituzioni, come per esempio, il sistema scolastico, che accoglie i bambini molto presto per collocarli nella realtà sociale nella sua complessità e multipolarità. Questo ha portato, in vari casi, a far sì che i genitori depositino i proprio figli nel sistema scolastico, affinché facciano di essi quello che in casa non sono riusciti o non hanno voluto realizzare. In secondo luogo, la comunione di persone nel seno della famiglia non si considera un’esperienza spontanea e connaturale, ma sono entrate in competizione le reti sociali e la comunicazione virtuale che ogni membro della famiglia, specialmente i più giovani, abbiano le loro proprie reti di comunicazione che li valorizzano e legittimano nella società. Si dà il caso di famiglie che coabitano nello stesso luogo e, non ostante, ogni membro costruisce la sua rete di comunicazioni indipendentemente dal resto dei membri della famiglia. L’essere riuniti sotto lo stesso tetto non significa più frequenza di interazione e compresenza nelle interazioni. In terzo luogo, le nuove esigenze di individuazione e personalizzazione fanno sì che la famiglia debba sviluppare un intorno (contorno) culturale complesso e ricco in virtù e beni culturali che difficilmente riesce a realizzare, e tuttavia, per esigenze del lavoro, il tempo dedicato alla famiglia si concepisce solamente come tempo di riposo e ozio e non come l’occasione di un’esperienza educativa per tutti i membri. Quando ciò accade, è facile ridurre la convivenza familiare all’espressione di affetti reciproci, perdendo di vista l’orizzonte più esteso della vocazione umana ad essere persona e a soddisfare tutte le esigenze di bene, verità e bellezza che si annidano nel cuore umano.
La relazione tra famiglia e lavoro nell’attualità richiede, in base a tutto quanto abbiamo detto, un nuovo orizzonte culturale. Non si tratta più di ottenere le entrate necessarie per la sopravvivenza e lo sviluppo, sia attraverso il tradizionale padre provvidente o, oggi, delle varie entrate apportate dai membri della famiglia, specialmente le donne che lavorano. Non è neanche sufficiente la relazione emozionale di attaccamento e riconoscimento di appartenenza a un tessuto sociale costruito quotidianamente dalla relazione quotidiana faccia a faccia dei diversi membri della famiglia. Ancora più insufficiente risulta, tuttavia la ristrettezza demografica prodotta dalla riduzione delle famiglie e dalla riduzione risultante dei vincoli di parentela. Così come la Chiesa, nel Concilio Vaticano II, ha definito le famiglia come chiesa domestica, per indicare che in essa si realizzava la profondità del senso della comunione ecclesiale, dal punto di vista sociale manca definire la famiglia come il luogo della vita e del lavoro, della formazione del capitale umano integrale che le persone offrono alla società per ottenere la convivenza pacifica e il bene comune di tutte le persone. C’è bisogno che la famiglia apprezzi, come segnala Benedetto XVI, che “La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore — « caritas » — è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace”(Caritas in veritate n.1).
Ciononostante, a questa esortazione va incontro l’immensa disuguaglianza sociale tra le famiglie che si è fatta più evidente nel contesto di una società organizzata sull’aggregazione del valore. Quando si trattava di soddisfare i bisogni elementari delle persone nell’ambito dell’alimentazione, la casa e l’abbigliamento, le differenze sociali avevano una misura più specifica e limitata. Trattandosi però dell’aggregazione di valore, le differenze sociali si sono acutizzate, specialmente per la mancanza di sviluppo del capitale umano nel seno della famiglia. Si tratta di un fenomeno mondiale che non influisce solamente i paesi poveri e emergenti, ma anche le società più sviluppate. Anche quando esistono politiche destinate a soddisfare l’uguaglianza delle opportunità, praticamente in tutti i paesi, gli incentivi economici e monetari non si sono dimostrati sufficienti per invertire la disuguaglianza. D’altra parte, i cambiamenti nella struttura demografica delle società occidentali hanno posto severe restrizioni alla capacità degli Stati di assicurare il benestare delle famiglie.
Certamente le nuove tecnologie delle comunicazioni aiutano a mettere a disposizione di molte persone la conoscenza e l’informazione rilevante per il loro sviluppo. Il problema, però, nella società attuale non è la scarsità di informazione, ma il suo eccesso, che implica procedimenti e criteri di selezione che solo possono darsi in una persona educata con capacità di discernere e può favorire lo sviluppo dei suoi talenti e della sua vocazione. Siamo in presenza di una vera “emergenza educativa”, come l’ha chiamata il Papa, ed essa solo potrà risolversi con una rinnovata solidarietà inter-generazionale tra le persone, che donano sapienza e esperienza ai più giovani per aiutarli nella conquista della propria libertà interiore e nella scoperta della propria vita come vocazione. Se questa è stata sempre la principale sfida del lavoro nel seno della famiglia, il contesto sociale odierno le conferisce una drammaticità e un’urgenza molto più accentuate. La “carità nella verità” è il criterio ermeneutico che il magistero pontificio ci offre oggi per rinnovare la comunione nel seno delle famiglie e per orientare il lavoro umano allo sviluppo integrale delle persone.
Fonte: Zenit, il mondo visto da Roma.