Cristina Simonelli, presidente delle teologhe italiane: è parola ormai caricata di un peso culturale che la orienta e la piega. In un legge serve spiegare, proprio nel rispetto delle diversità
“Identità di genere? Non uso di frequente questa espressione. Da un punto di vista comunicativo e strategico. Se faccio ricorso a una parola e poi sono costretta a impiegare venti minuti per chiarire in che senso la impiego, rischio io stessa di fare confusione e quindi di non farmi capire. In ogni caso non è un’espressione neutra, univoca, servono le virgolette”.
Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane e docente di teologia patristica a Milano e Verona, dopo anni trascorsi a riflettere sul ruolo della teologia di genere, è convinta che sia importante riflettere con attenzione, evitando le semplificazioni: a questo scopo è nata una intera Serie Teologica, Exousia (San Paolo), dedicata proprio a questo ripensamento importante: non un pentimento, ma un approfondimento. Occorre collocare la parola “genere” in due contesti di origine: quella dell’antropologia che fa riferimento al sex gender system e quella della sessuologia clinica. Letture che hanno contribuito ad accrescere la complessità di un’espressione tanto controversa. Da qualsiasi parte la si legga, “identità di genere” – tra virgolette – è ormai caricata di un peso culturale che la orienta, spesso la piega. E, allora, qual è la soluzione? Andiamo per ordine.
Identità di genere e orientamento sessuale sono concetti dibattuti da almeno mezzo secolo. Ora, la decisione di inserire entrambe le espressioni nel testo unico che farà sintesi delle cinque proposte di legge contro l’omofobia, ha rinfocolato il dibattito.
“Per capire l’evoluzione semantica del “genere” – riprende la teologa – bisogna guardare (almeno) a due contesti diversi, quello delle scienze socio-antropologiche in cui gender sta a indicare la modalità culturalmente determinata in cui donne e uomini si rappresentano e vivono. E quello della psicologia e della sessuologia clinica che considerano l’identità sessuale come il “chi sono” dei soggetti in relazione alle rappresentazioni socialmente definite e condivise del femminile e del maschile. Mentre il ruolo di genere rimanda alle aspettative di comportamento conformi all’identità di genere desumibile dal sesso”.
Tutto chiaro, o quasi, ma non è ancora finita. Perché negli anni Ottanta arriva Judith Butler che riconosce al gender un carattere performativo e si propone di sovvertirlo perché, sostiene, la sua forma binaria costruisce il paradigma eterosessuale normativo, escludendo in questo modo chi non vi si riconosce. Ora anche la filosofa di origine ebraiche, considerata a lungo la profetessa del gender, è andata oltre e utilizza anche altre concettualità. “Nei suoi ultimi studi – sottolinea ancora Simonelli – tutto ha finalità inclusiva, a partire dalla comprensione della vulnerabilità e dunque contro l’esclusione e la violenza”.