di Lucia Gherardi

La vecchiaia è davvero l’età in cui ciascuno deve ammainare le vele, come diceva Dante Alighieri?

Sappiamo bene che il mondo occidentale sta invecchiando. Gli studiosi ci dicono che il numero di figli è sempre più in diminuzione, mentre aumenta il numero degli anziani. Eppure questo dato, che dovrebbe sensibilizzarci (renderci più sensibili?) e pensare un mondo più accogliente per tutti, contrasta con la cultura del profitto che contraddistingue la nostra epoca, per cui l’anziano, non più produttivo, diventa spesso un peso per la società e per la famiglia. Se poi l’anziano è gravemente malato, il binomio diventa ancor più pesante.

Ho da poco perso mio padre, aveva 91 anni, malato di Parkinson da dieci anni, di cui gli ultimi quattro passati praticamente immobilizzato. So quanto sia difficile accettare la malattia di una persona cara, quanto sia faticoso man mano che la malattia avanza e tutte le funzioni si arrestano, quando arriva solo a guardarti, ma non riesce più a dire neanche una parola; conosco la tentazione di dare ascolto a quella voce che sempre più violentemente ti urla nel cuore una domanda: “che senso ha?”

E la risposta me l’ha data proprio lui, con il suo portare silenziosamente la sua malattia insegnandomi che il senso della sua vita era la sua stessa presenza. Sì, vali perché ci sei, perché esisti.

Vecchiaia: sconfitta dell’uomo o età d’oro?

Secondo i dettami della cultura dello scarto in cui siamo immersi, una vita anziana e malata non solo non produce, ma è un onere da sbarazzarsene il prima possibile. L’anziano è fragile, se è segnato dalla malattia lo è ancor di più e può sentire su di sé il peso della solitudine. Ma abbiamo paura della fragilità, non la accettiamo, in quanto non corrisponde agli standard di efficienza che il mondo ci richiede. Ci si affanna (?) nel rincorrere l’eterna giovinezza e molte persone si sottopongono ad ogni sorta di azione per allungare la vita. E’ evidente quindi che la vecchiaia viene vista come una sconfitta dell’uomo, una resa al tempo. Proviamo a pensarla, invece, come una fase della vita che acquista un valore inestimabile, come accade agli oggetti antichi che nessuno si sognerebbe di gettare via.

Entra in questo ambito la dolorosa realtà dell’eutanasia attiva, quella pratica legalizzata ormai in diversi paesi del mondo, che, sotto le mentite spoglie di consentire ad ognuno di “essere padrone della propria vita” o di farlo “per il suo bene”, consente a chi è vecchio, malato, stanco di vivere di assumere un farmaco che “dolcemente” lo accompagni verso la morte. Quindi, invece di domandarci come e dove trovare il senso di una vita che apparentemente un senso non ce l’ha, per poi proteggere e valorizzare la vita in ogni suo stadio, ci si preoccupa di regolamentare la morte. Eppure io negli occhi di mio padre, pur se stanco e provato dalla malattia e pur con i suoi scoraggiamenti, ho sempre visto un desiderio di futuro e una richiesta di compagnia e aiuto, oltre che di infinita gratitudine. La malattia, la sofferenza e la solitudine dei nostri anziani non vanno ignorate, ma la soluzione non è un facile lasciapassare per l’aldilà, piuttosto prendersi cura di quella sofferenza fisica e psichica.

Sofferenza e malattia: una possibilità di senso

Torniamo però alla domanda cruciale: che senso ha la vita di un vecchio e per giunta malato? Potremmo trovare una risposta riflettendo sull’essere umano come creatura all’apice della scala gerarchica della natura. La visione cristiana aggiunge una base trascendente: l’uomo è immagine di Dio, pertanto la dignità della persona è un valore intrinseco e permanente, non dipendente da prestabiliti standard di bellezza ed efficienza fisica e psichica. E la sofferenza e la malattia non sono prive di significato, ma danno alla vita quella possibilità di senso che la rende unica e singolarmente preziosa. Perché il senso dell’esistenza di qualcuno deriva dal semplice fatto di esistere e non dalle qualità o capacità in atto del soggetto che la possiede. E’ facile, infatti, riconoscere la bellezza, il senso e la dignità in una persona giovane e sana, ma il rischio è che risplenda la bellezza, la prestazione, la salute, invece è proprio nell’anziano malato, nella sua umanità nuda, che emerge e risplende la bellezza dell’essere umano: nelle sue rughe, nelle sue piaghe, nel suo essere intrappolato nell’immobilità, nel suo essere dipendente. Come dalla conchiglia esce la perla, così la fragile vecchiaia rivela la bellezza e la dignità insita nel profondo dell’essere . Ecco che allora gli anziani malati ci consentono di riconoscere nella vulnerabilità la radice della bellezza del valore della vita umana e scopriamo che, nella dipendenza reciproca, troviamo il senso della vita, che è prendersi cura gli uni degli altri fino alla fine. Compagnia, tenerezza e amore. Questo è l’antidoto contro la cultura dello scarto e della morte.

A conferma di questo, riporto una delle ultime cose che, con grande fatica, mi ha detto mio padre un pomeriggio che i miei fratelli ed io eravamo casualmente tutti da lui: “Oggi sono proprio contento!” e mentre io, figlia di questa società, dentro di me pensavo come potesse essere contento uno che è immobile in un letto, pieno di piaghe e di dolori, lui ha aggiunto: “Perché oggi siete tutti qui!”

Fonte: Family and Media