di Mariolina Ceriotti Migliarese

La nascita di un figlio ci mette a confronto con la necessità di gestire un cambiamento importante. Ma se la parola gestire è una parole del “fare” (guidare, controllare, inquadrare), è molto importante comprendere prima di tutto di quale cambiamento stiamo parlando. Il figlio segna una discontinuità forte nell’esperienza di sé e del mondo; rappresenta un salto qualitativo nella nostra vita, un vero e-vento nel senso etimologico: qualcosa che viene da fuori e che ci introduce nell’imprevedibile e nel definitivo.

Anche quando lo abbiamo deciso o programmato, la volontà di controllare la nostra vita si scontra inevitabilmente con l’ignoto del figlio-persona, e ci viene chiesto perciò di capire e accogliere la natura veramente creativa di una nascita. Attraverso di noi si affaccerà al mondo qualcuno che prima non c’era, che esisterà di vita propria, che non sarà mai completamente controllabile, e che ci chiede una risposta (re-sponsabilità) al suo esistere: ci chiede di essere amato, ma anche di ricevere cura e guida per orientarsi nel mondo. Questo qualcuno sarà legato a noi per sempre, e saremo per lui importanti come nessun altro.

Non è facile comprendere davvero la natura del cambiamento che una nascita introduce, e che oggi prende alla sprovvista soprattutto le madri. Le giovani donne di oggi, così competenti e decise, che si sono battute per la loro professione e il loro posto nel mondo, tendono a pensare al figlio come a un nuovo progetto da aggiungere alla loro vita quando ne avranno la possibilità pratica e le capacità organizzative. Si aspettano che un figlio arriverà se, come e quando lo desiderano, e che realizzare una buona maternità dipenda solo dalla loro decisione e dalle loro capacità; in molto casi poi pensano al figlio all’interno di una progettualità individuale piuttosto che a una progettualità di coppia.

Ma la maternità non può essere qualcosa che si “aggiunge” agli altri progetti; la maternità ci coglie sempre impreparati, ed è sempre fonte di trasformazioni diverse da qualunque altro cambiamento di vita. Collocare il figlio nel solco noto della progettualità controllabile, oppure pensarlo solo come progetto individuale comporta una grande fatica e apre le porte all’insuccesso, anche sul piano del rapporto affettivo ed educativo con il nuovo nato.

Quello che serve è dunque un cambio di prospettiva, per accettare con curiosità la sfida appassionante di un cambiamento vero; bisogna intuire che diventare padre e madre può cambiarci davvero in meglio e non avere troppa paura di entrare in una dimensione nuova: generare un figlio ci fa più adulti, perché ci rende capaci di porre il baricentro al di là di noi, in un tempo che si proietta verso il futuro. Per la donna è importante capire che la maternità è prima di tutto una formidabile esperienza creativa, che funziona da potenziale moltiplicatore delle energie vitali.

Con un figlio il baricentro esistenziale si allarga e si può diventare capaci di gesti e pensieri nuovi; un figlio porta a fare cose impensate, insegna cosa vuol dire concretamente prendersi cura di qualcuno, apre a pensieri, fantasie e progetti continuamente nuovi. Un figlio sviluppa la capacità di un “pensiero in relazione” e insegna una nuova gestione del tempo, dei ritmi vitali, delle priorità esistenziali: tutte competenze che ci rendono migliori anche nella vita di lavoro.

È però necessario confrontarsi con un doppio movimento interiore: accogliere la novità, che è sempre imprevista, e accettare la responsabilità, a partire da ciò che siamo, con tutti i nostri limiti e fragilità. Ma è necessario anche pensare al figlio come colui che prende origine non dal singolo, ma dal “di più” dell’amore di coppia: è un terzo generato dalla relazione e che si pone al di fuori di essa perché, come ogni vera creazione, è destinato a vivere della propria vita. Qualcuno che è se stesso, e che la vita ci affida perché lo prepariamo a viverla nel miglior modo possibile, con pienezza e gioia.

Fonte: Avvenire