di Mariolina Ceriotti Migliarese

La guerra scoppiata così vicino, proprio quando sembrava prossima la fine della pandemia, sta mettendo a dura prova in noi la tenuta della speranza. E i nostri ragazzi? Come stanno vivendo questa nuova minaccia?

Non c’è una risposta semplice, anche perché nelle diverse età dello sviluppo, dalla prima infanzia all’adolescenza, le risorse cui si può attingere per capire ed elaborare le situazioni complesse sono molto differenti.

Il bambino della scuola materna ha un pensiero molto concreto, e la sua conoscenza delle cose non si spinge al di là degli stretti confini della sua piccola esperienza. Proprio per questo ciò che lo fa stare bene è la prevedibilità, e la costruzione di routines che scandiscano in modo ordinato il suo tempo. A questa età il bambino è particolarmente sensibile all’atmosfera affettiva nella quale vive, e l’ansia dell’adulto è il suo più grande nemico; ciò che lo danneggia non è tanto la gravità di una minaccia, ma il modo in cui l’adulto sa o non sa padroneggiare le proprie reazioni agli eventi: per il bambino molto piccolo, che non ha la possibilità di misurarsi con l’oggettività di un pericolo e non ha ancora un linguaggio sufficiente a dargli significato, l’adulto funziona come un filtro, capace o meno di proteggerlo da ciò che non è ancora in grado di affrontare. Perciò la realtà di una guerra lontana non lo raggiunge direttamente, ma solo attraverso l’eventuale discorso dell’adulto; e anche davanti a minacce concrete ciò che può rassicurarlo non è tanto il contenuto delle nostre parole quanto piuttosto l’atteggiamento, il tono di voce, la percezione della nostra padronanza.

A partire dai sei-sette anni, l’attenzione verso il mondo si fa più vivace: inizia un’età di curiosità, un’età di domande. Il bambino è molto più attento a ciò che accade al di là delle mura di casa, e il suo linguaggio gli permette di accedere a tematiche sempre più complesse; se prima le notizie del telegiornale non gli arrivavano, ora invece le percepisce e anche quando non le comprende bene possono colpirlo o spaventarlo: ha voglia di capire e guarda agli adulti che ama come punto di riferimento fondamentale per rassicurarsi e orientarsi nella complessità. A questa età un bambino intelligente fa domande anche scomode: ci sono perciò anche quelle sulle cose che, come la guerra, fanno paura. Queste domande rispondono alla logica di un pensiero ancora egocentrico e concreto, e riguardano dunque la paura per sé o per le persone care. Fare domande rivela la fiducia nell’adulto: il bambino chiede con libertà solo se sente un interesse autentico per ciò che gli sta a cuore; se abbiamo troppa fretta, poca curiosità oppure paura, allora il bambino non chiede più. Fino all’adolescenza il bambino guarda agli adulti come a coloro che “sanno” e che hanno una soluzione per tutti i problemi. Noi sappiamo bene che non è così; eppure, anche se non abbiamo le risposte, per il loro bene dobbiamo saper accogliere tutte le domande. Lasciarle cadere crea un vuoto, un’area di incomunicabilità; il bambino sente che ci sono cose così difficili da affrontare che anche gli adulti le evitano. Dobbiamo perciò imparare ad ascoltare e condividere i loro timori. Con il nostro aiuto il bambino può comprendere che ci sono dolori impossibili da evitare, ma che insieme, nel reciproco amore, si possono sostenere; paure che si possono affrontare perché non si è soli, ma accompagnati da adulti che collocano le fatiche e i dispiaceri in un contesto di speranza.

Fonte: Avvenire