di Mariolina Ceriotti Migliarese

Siamo nati per generare, per essere fecondi. «Crescete e moltiplicatevi» è il primo, essenziale comando che ci trasmette il Dio della vita, e la cacciata dall’Eden non cambia il messaggio: ne rende solo più difficile la comprensione, e questa strada irta di ostacoli.

La vita dei santi è il massimo esempio di vita generativa, ma lo è perché chi guarda a loro vede passare la Luce: Luce che li attraversa, li feconda, si moltiplica in mille diverse sfaccettature sulle persone che raggiunge, e le rende a loro volta trasmettitori e moltiplicatori di Luce. Per questo i santi detestano il culto della personalità; non si tratta di inutile modestia, di umiltà malintesa; il culto della personalità blocca il passaggio della Luce, crea una stagnazione: niente di peggio per chi ha conosciuto la Vita e conosce la gioia del suo scorrere, la meraviglia del suo moltiplicarsi. Essere generativi contiene questa capacità di non trattenere, ma anche di trasmettere ciò che viene generato. Perciò chiunque dia vita, in piccolo o in grande, a un’opera di valore (un’azienda, un movimento politico o religioso, un’associazione…) deve confrontarsi con il difficile tema della trasmissione dell’eredità.

Tutti i “fondatori” corrono il rischio che ciò cui hanno dato vita si fermi su di loro; che le loro parole, i loro pensieri, le loro opere, si cristallizzino in un sistema chiuso, invece di continuare ad alimentare la vita e il pensiero dei figli, dando loro l’impulso necessario per portare frutto a propria volta.

Ma un figlio identico a suo padre non è mai un figlio riuscito: nessun vero padre potrebbe desiderarlo. Un padre che ha una passione desidera soprattutto che il figlio possa comprendere la “luce” che ha visto, che ne intuisca il valore e che accetti di prendere il testimone affinché la passione che lo ha animato non si spenga. Sta al figlio avere la forza di introdurre in ciò che ha ricevuto la propria differenza, per dare a quella passione la propria forma.

Per chi ha investito energie e passione non è facile lasciare andare la propria opera, accettare che qualcun altro ne abbia cura, ma che lo faccia a modo suo, introducendo cambiamenti personali. Eppure, ogni opera davvero vitale rifiuta la staticità, e come un corpo vivo ha bisogno del giusto equilibrio tra continuità e cambiamento.

Perché la creatività non diventi stagnazione, il figlio (reale o simbolico) ha bisogno che il padre gli lasci lo spazio per introdurre la novità del suo sé e la visione delle cose che solo lui può portare; il compito non facile dei figli è invece quello di trovare la sintesi migliore tra la novità di cui sono portatori e l’eredità che sono invitati ad accogliere.

Un vero padre ama sempre la novità del figlio: ne è curioso, gli dà credito, lo incoraggia a far proprio il rischio di vivere. Desidera che anche il figlio possa conoscere la stessa passione che lo ha animato, e che trovi nella vita la propria passione. Sa anche che l’intrapresa, quando vale, ha valore in sé stessa, e supera il tempo finito della propria vita.

Il successo di un padre è sempre la generatività dei suoi figli. Per questo dovremmo sentirci sicuri che Dio, che ci è Padre, non desidera mai soffocare la nostra personalità e non ha niente contro lo sviluppo del nostro “Io”. In quanto Padre, non può far altro che godere della nostra creatività: non può che farci credito, tifare per noi, ed essere curioso di cosa noi, suoi figli, inventeremo ogni volta da capo per fecondare la terra.

Fonte: Avvenire