di Mariolina Ceriotti Migliarese
Nel nostro mondo egocentrico il problema dei diritti è un problema cruciale, che ha nella vita di famiglia molte ricadute pratiche. Non è facile stabilire cosa sia davvero un diritto, e l’affermazione che il limite del proprio diritto si trova nel non calpestare il diritto dell’altro mi sembra insufficiente.
Considerare come “diritto” la possibilità di far valere sempre i propri desideri comporta nella vita familiare diverse conseguenze, di cui la prima è cercare semplicemente di far coesistere i diritti, senza che nessuno debba fare rinunce. Per fare questo, la prima pseudo-soluzione è quella di spostare tutto sul piano delle cose. Non è poi così difficile soddisfare i desideri che riguardano le cose: se papà vuole guardare un film e il bambino un cartone, basta avere due televisori; se la mamma vuole stare in pace e il bambino vuole un gioco nuovo, basta comperarglielo. E così via, perché le cose si possono comprare, possiamo averne il controllo, e sono in grado di soddisfare almeno per un po’ la nostra inquietudine. Ma non tutto può essere comprato. Come possiamo regolare altri desideri/diritti più immateriali? Il desiderio di tempo (il bambino vuole il mio tempo), il desiderio di conoscenza (il bambino chiede risposte adulte alle sue curiosità), il diritto di venire educati (il bambino chiede una direzione per crescere)? E il desiderio/diritto di fare domande di senso come può essere soddisfatto?
Ecco allora un’altra pseudo-soluzione molto diffusa: dare un nome diverso al problema. Se trasformiamo il diritto di essere amati in diritto al benessere (o al piacere, al divertimento, alla mancanza di sofferenza o fatica) possiamo sottrarci al compito di trovare tempo per i nostri figli, e delegare; se trasformiamo il diritto di educazione in diritto di istruzione possiamo sottrarci al compito di cercare risposte alle domande dei nostri figli, e delegare. Si tratta però appunto di pseudo-soluzioni, che rivelano presto la loro insufficienza. L’educazione e l’amore infatti non permettono scorciatoie, non si accontentano delle cose materiali e non permettono delega. Ecco allora che ci troviamo di fronte alla necessità di fare delle scelte, e ci sembra che i nostri legittimi diritti debbano soccombere al “dovere” che l’amore comporta: l’amore per i figli sembra comportare in se stesso un atteggiamento di rinuncia.
Il fatto di presentare la vita di famiglia in termini di “diritti e doveri” ci porta però fuori strada, perché mette l’accento soprattutto sull’obbligo e sulla fatica, e questo modo di vedere le cose è davvero nemico delle relazioni familiari: le presenta infatti come trappole che si oppongono al nostro diritto alla felicità. È importante perciò capire che nell’amore ciò che limita il nostro diritto non è tanto il diritto dell’altro, e neppure il senso del dovere, ma è piuttosto l’attivazione naturale di una responsabilità.
La responsabilità è la risposta alla fiducia di cui un figlio che nasce mi fa dono: è questa fiducia che mi muove a limitare qualche mio “diritto”, per dare priorità al suo bene; mio figlio si fida che cercherò di essere dalla parte della sua crescita, e che orienterò a questo le mie scelte. La responsabilità non è un “dovere”, ma un dono libero, che corrisponde al dono immeritato della fiducia dell’altro. Per questo, se liberamente assunta non ha niente di “sacrificale” o “doveristico”, ma si accompagna al senso di pienezza che nasce da ogni dono.
Fonte: Avvenire