di Luciano Moia

Ci sono tre grandi questioni irrisolte dietro la legge spagnola sulla transessualità che nei giorni scorsi il Parlamento spagnolo ha varato in via definitiva, insieme a una riforma della normativa sull’aborto. Il primo è di ordine concettuale. La legge contempla il diritto alla libera «autodeterminazione di genere» per tutti gli over 16. Sarà cioè possibile chiedere la modifica del proprio sesso all’anagrafe, attraverso una doppia dichiarazione a distanza di tre mesi, senza autorizzazioni giudiziarie o mediche a partire dai 16 anni. Non è richiesto neppure il consenso dei genitori, mentre dai 14 anni sarà possibile solo con il via libera di madri e padri.

Il primo snodo decisivo è proprio quello legato all’autodeterminazione di genere. Gli esperti del tema, quelli autentici che non si piegano né a ideologie né a tendenze, argomentano da tempo che nessuno sceglie la propria identità di genere o il proprio orientamento sessuale. Non sappiamo con certezza perché una minoranza di donne e di uomini – anche sulle statistiche il dibattito si fonda più su cifre-bandiera che su dati reali – manifesti orientamenti non eterosessuali e incertezze identitarie, anche di tipo non binario. Ma, quando a fattori genetici, cromosomici, ormonali e psicologici, si sommano condizioni derivanti da ambiente, cultura e fattori esistenziali, può capitare. Sono quelle persone che, come ha detto papa Francesco, «Dio ama così come sono» e nessuno può pretendere di cambiarle con interventi medici o terapie riparative.

Quando si tratta di condizioni accertate dopo un delicato e rispettoso accompagnamento psicologico – nel caso della transessualità – gli esperti parlano di elementi profondi e costitutivi della personalità. Sono così. E basta. Ecco perché è assolutamente sbagliato parlare di autodeterminazione di genere. Sessualità e identità non si possono scegliere come oggetti sullo scaffale del supermercato. E chi pensa di farlo, per minimizzare la questione, per esprimere valutazioni etiche oppure, al contrario, per esaltare una scelta, che tale non può essere, in nome di un libertarismo senza confini, fa un pessimo servizio proprio a queste ragazze e a questi ragazzi che già vivono un disagio pesante, un disorientamento che opprime, spesso anche sofferenza profonda e, nella maggior parte dei casi, si trovano a vivere situazioni di marginalità senza aiuti degni di questo nome. Purtroppo, neppure da parte dell’azione pastorale della Chiesa.

[…]

Continua a leggere l’articolo di Luciano Moia su Avvenire