di Franco La Cecla
Nel dibattito legato al fatto di sangue che ha spento la giovane vita di Giulia Cecchettin si sono sentite varie voci, sia individuali sia collettive, espresse in manifestazioni e in iniziative e su giornali, organi di informazione o semplicemente sui social. Un fatto così terribile ha scatenato una cascata di rabbia, indignazione e con essa di bilanci, giudizi, affermazioni. Ne è emerso un disagio generale che si è concentrato su una polarizzazione: il fatto violento è solo una conseguenza di una società violenta e questa violenza è la conseguenza di una società patriarcale.
Cosa questo aggettivo voglia dire ci siamo un po’ abituati a intendere: si tratta di una società diretta da uomini che si appigliano a valori che ideologicamente giustificano la dominazione maschile. Il patriarcato è retaggio di un passato mai superato a cui gli uomini, che sentono il potere sfuggire dalle proprie mani, si appigliano. Questo giudizio presuppone che oggi viviamo in una società diversa, dove le donne hanno il ruolo di sovvertire i valori del passato e in cui gli uomini devono “abdicare” alla propria posizione se vogliono fare parte di questa rivoluzione. Non si parla qui di singoli uomini, lo si ripete, ma gli uomini come “genere” sono radicalmente destinati a ripetere una identità collettiva che è la causa del patriarcato e quindi della violenza.
Se si vuole cambiare la società occorre demonizzare questa identità, e lasciare che siano le donne a ridefinirla – in quanto soggetto collettivo che ha dalla parte propria la garanzia di una identità che è stata ed è vittima e quindi sa bene come intervenire per mutare le cose. Da un certo punto di vista, come spesso si sente dire, le donne sono il nuovo soggetto rivoluzionario che deve bruciare tutto perché tutto si rinnovi. È una lettura classica. Caduta la funzione del proletariato, tramontata la classe operaia, fugato in parte il Terzo Mondo socialista, sono le donne le protagoniste del futuro del mondo. Lo hanno pensato in molti nel passato, perfino Dostoevskij, ed è il messaggio che due secoli quasi di femminismo ha portato avanti fino ai giorni nostri.
Recalcati, su queste pagine vi ha aggiunto una lettura psicoanalitica. Gli uomini sarebbero affetti da un narcisismo patologico che li rende incapaci di reciprocità. Come sempre accade nei casi in cui un fatto terribile scuote l’opinione pubblica è facile che emerga una narrazione che ha caratteri compatti, che crea una conformità a cui sembra ovvio che bisogni adeguarsi se non si vuole essere tacciati per reazionari. E come sempre accade in questi casi occorrerebbe invece fidarsi meno degli entusiasmi e delle furie collettive – che sono giuste in teoria ma non fanno distinguo – cioè, cadono in quell’essenzialismo che è la malattia delle ideologie.
Così si mescolano i comportamenti criminali con quelli che non lo sono, anche se rivelano dei germi patogeni, e si prendono per già condannati coloro che sono solamente imputati – la stampa ha gozzovigliato sulla notizia che il giovane filosofo Leonardo Caffo sia imputato di violenza domestica e lo ha trattato da condannato. È la tendenza di ogni rivoluzione a fare giustizia sommaria, tanto una testa in più o in meno da tagliare non fa differenza. Nella analisi sul narcisismo Recalcati dimentica che mai come adesso questa patologia sia attribuibile sia a uomini che a donne – a prescindere dalle loro scelte sessuali. E nelle analisi affrettate che sorgono in questi giorni è facile che la demonizzazione della identità maschile si accompagni a una forma di angelizzazione di quella femminile. Che questo sia di giovamento al dibattito e all’avanzamento della società io ho qualche dubbio, visto che dell’ “angelo del focolare” il femminismo si è sbarazzato molto tempo fa.
In tutto questo la polarizzazione di bene e male non giova a nessuno, perché pensare che le donne siano buone per natura e gli uomini cattivi per cultura fa risorgere un biologismo che mi sembra fosse uno delle cose da attaccare con più forza per una società equa (e si potrebbe aggiungere queer). Quello che manca è ovviamente una analisi generale della società. La violenza non è una prerogativa solo maschile – per quanto la violenza contro le donne lo sia. Ma le guerre non vengono fatte solo da uomini, e leader politiche negli ultimi 150 anni sono state anche donne che hanno deciso di innescare conflitti, da Indira Gandhi a Margaret Thatcher a Golda Meir. E la società non è violenta solo perché è patriarcale – come se il matriarcato non esprimesse altrettanto istanze di repressione – le madri che infibulano le figlie nei Paesi arabi e nel Corno d’Africa.
Forse si potrebbe cominciare a pensare che c’è una questione più ampia. Forse la competizione, la competitività di cui la nostra società è intrisa ha a che fare con questa violenza. Il capitalismo per cui donne e uomini devono competere per gli stessi posti e gli stessi poteri, è qualcosa che sta alla radice di buona parte del disagio che viviamo. Ivan Illich e Barbara Duden hanno dato un contributo fondamentale e dimenticato in questo campo. Il capitalismo si impone negando il ruolo diverso e complementare di donne e uomini per la costruzione della comunità, affermando un mondo in cui esse ed essi devono farsi la guerra per accedere alla stessa scarsità, unico valore che l’economia capitalista fa sorgere. Il mondo ridotto a mercato è scarso e per sopravvivervi bisogna farsi la guerra. Pensare che la colpa sia tutta da una parte non fa che coprire di nebbia il contesto più generale e alla fine fare cadere la lettura di un fatto terribile nelle banalità tipica dei discorsi dei social.
Fonte: Avvenire