di Francesco Ognibene
Dopo due anni di studi il governo inglese mette al bando i farmaci per fermare lo sviluppo dei minori con problemi di identità. A fine mese la chiusura del centro nazionale. Le domande per l’Italia
Una «decisione storica». Impressiona che lo stesso Ministero della Salute che aveva a lungo sostenuto l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà (come la triptorelina) in centri specializzati con l’autorizzazione dello Stato ora definiscano con questa espressione – usata martedì 12 dalla ministra della Salute Mary Caulfield – la decisione esattamente opposta, cioè il bando a quegli stessi farmaci, al termine di una lunga quanto rigorosa procedura scientifica e istituzionale.
Questo dietrofront clamoroso di cui giunge notizia da Londra, amplificato da tutti i media britannici come il capolinea annunciato di una vicenda assai travagliata, è il segno di una onesta ammissione dell’errore alimentato da chi ha sponsorizzato la transizione di genere come esito pressoché inesorabile di tutte le difficoltà di costruzione della propria identità caratteristiche della pubertà e della preadolescenza. In Inghilterra (e altrove in Europa e oltreoceano) si era scelto di fare da avanguardia e di affidare l’esame dei casi come la somministrazione dei farmaci a un centro nazionale unico, sotto controllo pubblico: la Clinica Tavistock di Londra (nome completo: Tavistock and Portman Nhs Foundation Trust, dove Nhs sta per Servizio sanitario nazionale).
Un primo, determinante colpo di freno era giunto nel 2022 con la Commissione d’indagine presieduta da Hilary Cass, pediatra di fama, che aveva esaminato i sempre più numerosi casi sospetti di sbrigativa prescrizione dei farmaci bloccanti della pubertà, somministrati a giovanissimi pazienti dei quali i medici ipotizzavano una incongruenza tra sesso alla nascita e identità personale concludendo per l’arresto farmacologico dello sviluppo in modo da poter riattribuire il sesso secondo la scelta del giovane.
Una linea di condotta che la Commissione censurò osservando che nella grande maggioranza dei casi (si parla dell’80%) è una incertezza che non persiste nell’adolescenza. Un sintomo che scompare, insomma, ma che se preso come la prova che bisogna cambiare sesso produce conseguenze devastanti e quasi sempre irreversibili, se si ricorre ai farmaci o addirittura al bisturi. Allo stop annunciato per le attività della Tavistock erano seguite le nuove linee guida che in una fase transitoria delimitavano i casi da sottoporre a terapia farmacologica alla sola ricerca scientifica. Ora la decisione definitiva del governo inglese di mettere al bando i bloccanti della pubertà perché non ci sono «prove sufficienti» della loro efficacia e sicurezza. Una pietra tombale su qualsiasi farmaco dispensabile dai medici, a maggior ragione per prodotti che hanno effetti estremamente impattanti sulla salute della persona cui vengono prescritti.
La frenata che da due anni l’Inghilterra ha impresso al trattamento della disforia di genere ha numeri impressionanti: da 5mila casi trattati nel 2022 ai 100 attuali. Un cambiamento di rotta a 180 gradi assai eloquente, non solo sul piano clinico e scientifico ma forse soprattutto su quello culturale: si pensi al supporto mediatico e ideologico assicurato al trattamento della disforia nella direzione della riassegnazione del genere e dell’identità sessuale come costrutto culturale soggetto alla scelta di ciascuno.
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E in Italia? Siamo dentro questo intreccio spesso inestricabile, che rende assai difficile assumere decisioni realmente nell’interesse del minore. […]