di Assuntina Morresi
Si sarebbe potuto evitare un epilogo tanto doloroso e lacerante, se valutando la condizione della piccola Indi Gregory si fossero adottati criteri bioeticamente consolidati, come ad esempio quelli indicati dal Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) in una mozione approvata il 30 gennaio 2020: «Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita». Nel testo si sottolinea la necessità di astenersi da trattamenti inutili e sproporzionati e si delinea una sorta di “road map” metodologica per affrontare queste situazioni, che vanno necessariamente affrontate caso per caso. Fra le indicazioni condivise dal Comitato spicca quella sulla seconda opinione, dove il Cnb raccomanda di «consentire una eventuale seconda opinione, rispetto a quella dell’équipe che per prima ha preso in carico il bambino, se richiesta dai genitori o dall’équipe curante, garantendo, in condizione di autorevolezza scientifica, la libertà di scelta dei genitori, tenuto conto del primario interesse del figlio. L’auspicio del Cnb è che «le due opinioni possano dare maggiore certezza della identificazione dell’accanimento clinico e una maggiore condivisione nell’iniziare o continuare o sospendere i trattamenti in corso».
Si tratta di una articolazione del concetto di libertà di cura: ogni paziente, purché informato, ha diritto di scegliere i trattamenti medici a cui sottoporsi.
[…]
Il problema, quindi, non è “chi” decide, se giudici o genitori, ma “cosa” si decide riguardo a questi piccoli pazienti senza prospettive di guarigione. La questione della seconda opinione si inserisce prima del ricorso al tribunale proprio per evitare il contenzioso giudiziario, che deve restare l’extrema ratio: i genitori di un bambino devono poter chiedere un ulteriore parere rispetto a quello dei medici curanti, ed eventualmente poter cambiare l’équipe medica di riferimento per le cure del proprio figlio, purché a parità di autorevolezza scientifica. E la situazione di Indi Gregory era proprio questa, descritta dal Cnb: i genitori avrebbero voluto trasferirla in uno dei migliori ospedali pediatrici del mondo, il Bambino Gesù a Roma, perché ritenevano che il percorso proposto dai clinici italiani fosse più adeguato per la loro figlia. Non è stata messa in dubbio la diagnosi dei medici inglesi e nessuno ha parlato di terapie salvavita: era stato prospettato un modo diverso di assistere la bambina in quel che restava della sua breve vita.
Si tratta di un’opzione che non dovrebbe essere oggetto di decisione di un tribunale: per quale motivo deve essere lo Stato a scegliere dove curare i malati, specie quando non possono esprimere il proprio consenso, se le alternative sono equivalenti dal punto di vista delle competenze professionali dei medici interpellati? Dal punto di vista bioetico è stato quindi francamente inspiegabile il divieto di trasferimento della piccola in Italia. Un orientamento ancora più incomprensibile nel nostro tempo, quando l’autodeterminazione viene indicata come criterio principale per ogni decisione individuale: proprio recenti campagne per l’eutanasia adottano come slogan “Liberi fino alla fine”. Forse non vale sempre? O forse si ritiene che nel caso di malattie inguaribili a prognosi infausta, come quella della piccola Indi, anziché considerare appropriatezza e proporzionalità dei trattamenti, anche salvavita, e discutere di libertà di scelta, siano in gioco altri, differenti criteri di valutazione? Per esempio se vale veramente la pena prendersi cura di questi malati, e fino a che punto, considerando magari il lato economico?
Leggi tutto l’articolo di Assuntina Morresi su Avvenire