di Luciano Moia
In Corea del Sud crescono i gruppi dell’estremismo femminista che vogliono eliminare la presenza maschile, reazione a un patriarcato arrogante e violento. Ma la ricetta vincente si chiama reciprocità
“Se sorgono forme di femminismo che non possiamo considerare adeguate, ammiriamo ugualmente l’opera dello Spirito nel riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti”. Lo scrive papa Francesco (AL 54) e non si tratta dell’unico suo intervento in tema di femminismo. Tra le forme di “femminismo inadeguato”, che metterebbero a dura prova anche l’atteggiamento positivo del Papa verso le proteste in nome del diritto delle donne, c’è forse quello che sta creando scompiglio della società sudcoreana. Le donne che lo sostengono non vogliono soltanto combattere il patriarcato, intendono proprio cancellare gli uomini. Il loro programma è racchiuso in quattro punti secchi e potenti come fucilate: niente matrimonio eterosessuale, niente figli, niente storie d’amore con uomini, niente sesso eterosessuale.
L’auspicio, paradossale e irrealizzabile ma che fa riflettere, è quello che vorrebbe una società tutta al femminile, con gli uomini ridotti in completa subordinazione o comunque tanto marginali da non contare nulla, o quasi. Le femministe che animano questo movimento estremista rappresenterebbero una posizione marginale nel grande arcipelago delle associazioni sudcoreane impegnate a lottare contro la discriminazione di genere e contro la violenza sessista. Il sito francese La Depeche – rilanciato in Italia dalla newsletter del Cisf (Centro internazionale studi famiglia) – che pubblica la notizia, spiega che il motto del movimento è “4B”, abbreviazione di quattro parole che iniziano tutte con bi, il segno di negazione coreano. E quindi: “bihon“, niente matrimonio eterosessuale; “bichulsan” niente maternità; “biyeonae” niente appuntamenti romantici e “bisekseu” niente sesso eterosessuale.
Ma da cosa nascono questi sentimenti di radicale opposizione alla maschilità? Sarebbe facile puntare il dito contro l’ideologia gender che, nelle sue espressioni più estreme, nega il valore della differenza sessuale e sostiene che non esiste un carattere naturale della struttura culturale del genere. Corpi, sessualità e genere sono soltanto una costruzione che va smantellata per porre fine alle logiche della discriminazione e dell’assoggettamento. La lotta contro queste ingiustizie diventa quindi lotta contro il potere estremo dei maschi, responsabili di aver promosso e perpetuato queste ingiustizie nel corso dei secoli.
Ma la motivazione che muove l’oltranzismo femminista delle coreane, più che a ragioni teoriche, sembra legato a questioni connesse con la vita reale di quel Paese. Innanzi tutto, la violenza domestica. Se la media mondiale dei casi di violenza parla di episodi presenti nel 30% delle famiglie, in Corea siamo al 40%. E inoltre, nel mondo del lavoro, sono ancora diffusi atteggiamenti di pressione patriarcale che impongono alle donne l’abbandono del posto di lavoro dopo il parto. Sarà anche per questo che in Corea del Sud il tasso di natalità non è mai stato così basso: 0,72 figli per donna. E i sostegni economici introdotti per incoraggiare le coppie a mettere al mondo figli non sembrano finora aver dato risultati significativi. Un fallimento di cui il presidente coreano Yoon Suk-yeol, presidente della Corea del Sud, ha accusato le femministe.
E non è l’unica accusa rivolta alle donne che si battono per l’affermazione dei loro diritti e che quasi ogni giorno finiscono nel mirino dei media. Per la stampa sono solo “un gruppo di pazze” con i capelli tagliati, che si battono per una causa “egoistica”. Accusa spesso estesa a tutte le donne che studiano e che vogliono far carriera definite “kimchi”, uno stereotipo che identifica le persone “egoiste, vanitose e ossessionate da sé stesse mentre sfruttano i loro partner“, riferisce la ricercatrice femminista Euisol Jeong a The Cut.
Dalla demonizzazione sui media alla violenza di genere il passo, purtroppo, è molto breve. I casi di femminicidio sono in aumento, così come il revenge porn, la pornografia per vendetta a cui sarebbe legata l’impennata di crimini sessuali di cui sono vittime le donne. Nel 2019, l’associazione femminista Korea Women’s Hotline ha stimato che nel Paese viene uccisa una donna ogni 1,8 giorni.
Ma c’è un altro motivo per cui le femministe coreane non sopportano più gli uomini: gli insostenibili standard di bellezza imposti alle donne. “La portata del fenomeno della chirurgia estetica è uno dei sintomi più significativi della questione del corpo nella società contemporanea della Corea del Sud. Tra il 20% e il 30% delle donne coreane si sottopone a interventi di chirurgia estetica, un dato eccezionale su scala globale”, ha affermato Valérie Gelézeau, in Les passions esthétiques sud-coréennes. Anche perché la bellezza è considerata un fattore di ascesa sociale. Il 25% della popolazione ammette di essersi sottoposto a interventi estetici per migliorare il proprio aspetto. Non deve meravigliare quindi se l’aspetto fisico è uno dei criteri adottati nelle selezioni di lavoro. Ma, a questo punto, non deve neppure meravigliare che esistano gruppi di femministe disposte al tutto per tutto per cancellare i germi di un maschilismo assurdo e intollerabile.
Ecco perché la “lezione coreana” è uno spunto prezioso per riflettere sul rispetto di genere. E vale in Estremo Oriente, in Africa, in Europa e ad ogni latitudine. Non c’è possibilità di convivenza serena tra donne e uomini se non all’insegna di quella scelta che l’antropologia cattolica definisce reciprocità. Lei e lui, una di fronte all’altro, nel rispetto di un’alterità che è specchio, monito, consapevolezza di una responsabilità e gioia di una differenza che coinvolge con la stessa intensità colei o colui che ci sta accanto. In questa reciprocità di genere, feconda e costruttiva, sta anche la radice del bene comune.
Fonte: Avvenire