Relazione del Prof. Giuseppe De Rita, sociologo e Presidente del Censis, al primo congresso internazionale di pastorale degli anziani
Ho scelto di utilizzare la parola longevità nel titolo della mia relazione per suggerire un cambiamento di linguaggio: parlare di vecchiaia, infatti, da un senso di pesantezza; la parola longevità, invece, ci fa comprendere che c’è vita fino alla morte e conferisce un senso di forza.
Per secoli l’anziano è stato considerato un peso, una difficoltà. Quando i Fenici, più di 1000 anni prima di Cristo, arrivarono in Sardegna, in un’isola oggi sviluppata, ma allora probabilmente molto più arretrata, importarono i loro usi e costumi. Uno di questi era che gli anziani – a quell’epoca ciò significava le persone sopra i 40 / 50 anni – dovevano essere uccisi perché li si vedeva come un peso e quindi non dovevano continuare a vivere. Non era nemmeno un’eutanasia, una morte dolce, ma soltanto un sacrificio volgare e sanguinario che veniva fatto credendo di dare in questo modo alla società una ricchezza vitale che gli anziani in qualche modo rubavano. Omero, 1000 anni prima di Cristo, raccontava tutto questo e diceva che i sardi, che sono un popolo fiero, andavano al supplizio con un riso fra l’ironico e lo sprezzante proprio perché disgustati di questo modo di trattare gli anziani. Da allora quel riso si chiama “sardonico”.
Parto da così lontano per dire che il discorso sugli anziani non nasce adesso, ma scaturisce dal rapporto fra chi vuole andare avanti e non sente i vincoli del passato e chi invece questo passato lo rappresenta con i suoi pesi, i suoi malanni e le sue difficoltà, ma in qualche modo vuole rimanere parte del gioco.
Che cosa è successo in questi anni, in questi secoli: perché oggi si ripropone, anche se con formule diverse, l’idea che gli anziani siano un peso? Certo non vanno eliminati, magari con una dolce eutanasia, però vanno in qualche modo contrastati perché la loro presenza riduce la vitalità del sistema. Perché succede tutto questo?
Perché oggi conosciamo una dimensione di massa dell’invecchiamento alla quale non siamo abituati; intere generazioni per secoli hanno ritenuto gli anziani della gente da onorare, da stimare, a cui attribuire potere, ma, per tutto questo tempo si è parlato dell’anziano, al singolare. Chi legge il De senectute di Cicerone sente che l’anziano era considerato la memoria storica della società, era da stimare e da accompagnare da casa fino alla curia del Senato perché era un personaggio di grande rilievo. Invece oggi questa dimensione personale, quasi mitica dell’anziano saggio, istruito, con tanta esperienza, con tanto potere, è finita. Prevale la dimensione di massa degli anziani. Perché? L’affollamento degli anziani sta diventando un fenomeno di massa in tutte le società. Pensate che noi italiani abbiamo avuto dal 1951 ad oggi una popolazione sopra i 65 anni, che nel ‘51 era di 13 milioni, oggi è di quasi 20 milioni, 7 milioni di anziani in più nello spazio di 70 anni.
Erano il 22% della società di allora e oggi, invece, sono il 32%. Ciò che è più significativo è la velocità di questo cambiamento. Allo stesso modo, negli ultimi 70 anni, i sopra 65enni in Italia sono aumentati del 283%, i sopra ottantenni sono aumentati del 750%, mentre la popolazione è aumentata del 20%. Generalmente, quando si parla di demografia, l’unità di misura sono i secoli; se un cambiamento così radicale avviene in pochi decenni, si comprende la rilevanza del tema. Esso è importante non solo perché è quantitativamente enorme, ma perché la velocità rende il cambiamento non facile da decifrare: oggi, infatti, non c’è più una vecchiaia, ma ci sono tante vecchiaie. Ci sono quelli di 65 anni, ci sono quelli che diventano vecchi appena pensionati, ci sono quelli che arrivano ai 90 anni, ci sono i sufficienti e quelli non autosufficienti, ci sono i malati e i non malati, ci sono gli anziani soli e gli anziani che stanno in casa di cura: la realtà della vecchiaia è estremamente variegata.
Per questo, anche le tematiche da affrontare sono diverse. Oggi chi si occupa di anziani si deve occupare di sistema pensionistico, di sistema assistenziale, delle realtà della malattia, della mancanza o della crisi delle relazioni interpersonali, ecc… anche le professionalità in campo sono diverse.
Per secoli, fino alla generazione dei miei genitori, gli anziani erano a carico della famiglia, dei figli, al massimo c’era una figura esterna che era il geriatra. Oggi, se guardate al mondo degli anziani, lo trovate affollato di tanti operatori, dalle case di riposo al sistema pensionistico, a tutta l’imprenditoria privata che va verso gli anziani, fino alle badanti. C’è una moltiplicazione dei farmaci, degli psicoterapeuti, dei fisioterapisti, tutti fanno parte di questo mondo. Quello in cui vivono gli anziani è un mondo affollato e, per certi versi, indecifrabile. Tutti ci occupiamo di anziani, ognuno da un punto di vista particolare, chi fa il ricercatore, chi fa il fisioterapista, chi fa il badante, chi fa il figlio che si deve occupare della madre o della zia anziana. Ciò genera modi molto diversi di pensare all’anziano, ma sono tutti accomunati dal fatto che lo releghiamo ad una dimensione residuale. È necessario rendersene conto: ad esempio il figlio che ama molto la sua mamma, la aiuta a vivere fino ai 95 / 100 anni, spesso sente che non si può essere ancora figlio a 70 anni, anche se questo avviene sempre più spesso. Alcune volte rischia di divenire insopportabile poiché non abbiamo il tempo per badare a noi stessi, ai figli, alla moglie, ai nipoti ed anche ai propri genitori. Tutto ciò crea un senso di residualità e porta a chiedersi perché dobbiamo avere ancora questi anziani vicini?
Certo l’umanità, la cultura, la tradizione, la fede ci spingono ad essere attenti agli anziani, però è chiaro che una società che invecchia con tanta velocità è una sorpresa e costringe ognuno di noi badare a qualcosa che non aveva previsto, che le generazioni passate non hanno sperimentato. È un cambiamento così veloce che non siamo in grado di padroneggiarlo.
Vorrei ora parlare della dimensione soggettiva, di come, cioè, l’anziano si concepisce. Molto spesso egli si percepisce come un peso per gli altri, come chi sa che qualcuno deve badare a lui perché non ce la fa da solo. Alla domanda fatta ad alcuni 65enni: quando avete iniziato a sentirvi anziani? Il 53% ha riferito di essersi sentito vecchio quando ha perso l’autosufficienza; Il 28% ha detto che ciò è avvenuto quando è morta la moglie o il marito, il 23% quando è andato in pensione; il 22% al compimento dei 70 anni; Il 22% quando ha perso il giro degli amici e dei conoscenti; il 10% quando sono diventati nonni – il che significa che la professione dei nonni non è molto bene accettata. Esiste dunque una dimensione soggettiva del divenire anziano che in qualche modo va affrontata. L’anziano è tale quando si dichiara anziano, ma questo avviene per 6 o 7 motivi diversi. Soltanto uno è oggettivo: la perdita della sufficienza. Tutti gli altri – sono diventato nonno, ho perso gli amici, è morta mia moglie, ecc… – sono soggettivi.
La nostra è una società egolatrica, che, cioè, pensa solo a se stessa, che considera che tutto è mio, il tempo, il lavoro, la mia azienda, la moglie (tanto che la posso cambiare a piacimento), i figli: tutto è mio. Ma un anziano cosa dice di se stesso: cosa è mio? Riesce ancora a dire la mia vita, il mio futuro?
Si può avere 50 badanti, 50 fisioterapisti che ti fanno camminare anche senza la carrozzella, però se non hai chiaro chi sei, non ce la fai. Per questo gli anziani cercano disperatamente di precisare il loro ruolo. Tutti sappiamo che in Italia la vera ricchezza è negli anziani. L’ottanta per cento della ricchezza immobiliare è in mano a loro. Lo stesso si po’ dire per la ricchezza patrimoniale. Essi, nel 70% dei casi, aiutano i nipoti e i figli finanziariamente. È gente che in qualche modo ha una sua capacità di spesa e in questa maniera afferma di non essere un peso, al contrario di quello che molti pensano. “Io sono uno che ha la casa di proprietà, che si sente sicuro alle spalle, mentre voi ragazzi non avete la stessa sicurezza del futuro. Io ho la casa di proprietà, ho lo stipendio, ho la pensione, ho un piccolo patrimonio che mi dà una rendita. Io non sono un peso, ma un sostegno perché ho la possibilità di finanziare il figlio, di finanziare alcune volte i nipoti con la paghetta”.
Non si comprende il comportamento degli anziani se non si tiene conto della ricchezza che essi sanno di avere.
Essi continuano ad accumulare, continuano a comprare casa, magari per i figli, a fare il mutuo che magari i nipoti non potranno pagare. Continuano ad essere la punta della freccia della ricchezza delle famiglie italiane. Non dimentichiamoci questo! Non consideriamo i vecchi come un peso perché in Italia, e credo nelle società sviluppate tutte, l’anziano è quello che ha più patrimonio, più pensione, più capacità di presenza.
Parliamo di gente che vive la longevità, non un residuo di vita. Se andate a vedere i consumi, quasi la metà degli anziani fanno viaggi, due milioni e mezzo vanno in visita musei e mostre, 2 milioni vanno al cinema, 2,5 milioni visitano monumenti, 1,7 vanno al teatro ecc…
Inoltre, gli anziani aiutano economicamente figli e nipoti. Quasi tre milioni e mezzo di loro si occupano dei nipoti in termini logistici. 5 milioni e mezzo di anziani si occupano di altri anziani. Guai a Dio pensare che l’anziano oggi in Italia sia un residuo! Neppure i Fenici lo porterebbero a morire! Probabilmente farebbero questa valutazione: sul piano finanziario ha i soldi, contribuisce al PIL, contribuisce alla vita, contribuisce agli altri: quindi non lo metto a morte. Invece oggi prevale una cultura della residualità della vita anziana. Rendiamoci conto che esiste il fastidio, specialmente di qualche giovane, a vedere gli anziani che restano sulla breccia, che hanno le spalle coperte dalla pensione, dal patrimonio, mentre noi giovani non ce l’abbiamo.
Vorrei ora affrontare tre aspetti fondamentali della vita di ogni anziano. Il primo è la dimensione della solitudine, della fine delle relazioni. Gli anziani soli, magari ricchi, possono essere ancora consumatori però sono destinati alla solitudine. Se ci guardiamo intorno, scopriamo che uno dei miei amici è morto, l’altro anche, un altro ha cambiato città ed alla fine io resto solo. La dimensione della solitudine diventa un problema fondamentale dell’anziano e non è affrontabile con la bontà d’animo; con una visita una volta ogni tanto. Tu lo vai a trovare una volta ogni tanto ma lui negli altri 7 giorni non ha relazioni. Magari esce con una borsetta e va a fare la spesa, si ferma mezz’ora in più dal giornalaio a chiacchierare, ma la dimensione della solitudine è molto forte. L’unica soluzione è una cultura comunitaria più forte. Dobbiamo essere coscienti che nelle pieghe della vita degli anziani c’è un destino di solitudine che crescerà e che, se vogliamo farvi fronte, dobbiamo creare una cultura comunitaria. Essa serve a tutti noi, ma, soprattutto, a quelli che sono tagliati fuori dalla relazione.
In buona parte della società italiana c’è un desiderio di rottura delle relazioni. Sono 10-15 anni che la bandiera dell’italiano medio è il vaffa; è un modo di dire: “Non ti voglio più vedere, non voglio più avere nulla a che fare con te”. E se tu per 10-15 anni dici vaffa a tutti, poi ti trovi solo e se lo fanno in molti si crea una solitudine generalizzata, incredibile.
È il primo punto: nelle pieghe di una società in cui la longevità si afferma in maniera massiccia le relazioni sono sempre più labili e, se non hai relazione, chi ne soffre di più? Non sono io che prendo la macchina e me ne vado a spasso, vado a lavorare, ma sono quelli che della relazione vivono quotidianamente e che senza relazioni muoiono.
Il secondo aspetto, anche questo frutto della forte soggettività della nostra società è la mancanza di fini. In una riflessione di tanti anni fa proprio sul De Senectute di Cicerone uno dei partecipanti, credo il card. Ravasi, disse: “Guardate che il problema vero dell’anziano è che non ha più fine; magari ha più soldi che fini”. Si invecchia bene se sei fedele all’oggetto del tuo lavoro, se sei fedele a un obiettivo, a una scelta di vita. Sia che fai il prete, sia che fai il ricercatore, puoi andare avanti fino ai 100 anni se hai questo filo di ferro, questa lama nel tempo che ti conduce: il fine che hai scelto. Molti anziani non hanno più un fine, per questo è vero che “ne uccide più la pensione che il lavoro” perché la pensione segna la fine di un compito, la fine di un fine; ci si trova a non avere più un fine da seguire. Diventi un estraneo alla società perché non hai più alcun fine. Nella mia ormai lunga vita vedo che questo è un elemento essenziale: dare dei fini agli anziani. Non dei fini strumentali, giochi, la televisione, gli abbonamenti strani. Quando vedo che ci sono tanti anziani che si occupano di altri anziani, lo ritengo un fatto positivo. Hanno perso la finalità del lavoro, ma la trovano nell’impegno sociale, nell’impegno politico. Mantenere il fine, la finalità del proprio essere, è il modo migliore per invecchiare. Se non hai un obiettivo sei finito. Vale anche per il 25enne, ma per un 75enne l’alternativa è la morte perché non ti resta più nulla da sperare, nulla per cui combattere.
Il terzo aspetto, molto più delicato, è la concezione della propria creaturalità. Proprio perché siamo tutti soggettivi, pensiamo che il tempo e la vecchiaia siano di nostra proprietà e non ci rendiamo mai conto – o non ci vogliamo rendere conto – che siamo solo creature di Dio, che Dio ci ha creati e che ci verrà a riprendere un giorno, che non siamo padroni di noi stessi. Questa dimensione è più accentuata nell’anziano ed è un elemento che porta a morire male perché non si fanno i conti con la propria creaturalità. Essa ti identifica così come l’oggetto del tuo lavoro identifica la tua vita e come la socializzazione lo fa in un gruppo di amici. “Sono Creatura del Signore”: se non hai questo, non potrai mai diventare vecchio bene. Avrai sempre un’ombra di egoismo, di narcisismo individuale che dice: io solo so tutto su me stesso e sul mio futuro. Se non si ha l’umiltà profonda di accettare di non essere neppure padrone di se stesso, ma soltanto creatura di Dio, non si può invecchiare bene. Pratolini, uno scrittore italiano poco conosciuto, diceva: “La morte è il compimento della conoscenza”. Questo significa due cose: che tu fino al momento in cui muori continui a capire, a crescere, a compierti e, in secondo luogo, che dopo ci sarà, se hai capito chi sei, il complimento della conoscenza di te stesso e che dopo la tua conoscenza potrà andare anche altrove. Questo meccanismo profondo del rapporto fra compimento e conoscenza che sta dentro la frase di Pratolini sta dentro la nostra vita quotidiana.
Il Salmo 23 recita
“Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni”.
Queste parole ci fanno pensare che, nella misura in cui la grazia del Signore è stata compagna fedele della mia vita, nel momento in cui morirò passerò alla casa del padre. La speranza che la creaturalità che Dio ci ha dato lungo tutto il migrare dei giorni – così traduceva Padre Davide Turoldo – si compirà nella morte per aprirsi alla casa del Padre è il punto su cui dobbiamo lavorare: è la dimensione più profonda della nostra esistenza. Significa che il compimento della nostra vita sta nel Signore. Il prete che mi è stato più vicino per tanti anni, padre Clemente Riva, amava moltissimo la cerimonia del Venerdì Santo perché c’era la frase in cui lui credeva di più, la frase di Gesù sulla croce che dice “tutto è compiuto”. Compiuto non significa che è proprio finito tutto. No, “è compiuto” significa che la vita è giunta al suo completamento. Se non comprendiamo di essere creature destinate ad avere una conoscenza nuova nella casa del Padre, non abbiamo nulla.