di Luciano Moia
L’articolo 6 della legge Zan approvata alla Camera stabilisce che il 17 maggio di ogni anno venga celebrata la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, anche con iniziative organizzate dalle pubbliche amministrazioni e dalle scuole, comprese quelle primarie. Scelta ideologica? Tentativo di introdurre tra i bambini i veleni della cosiddetta cultura gender? Un rischio, certo. Nella lettera scritta al direttore di “Avvenire” il relatore della legge, Alessando Zan, assicura tuttavia che «non si prevede in alcuna parte della legge l’introduzione di fantasmatiche “ore di gender”, né si espongono studentesse e studenti a chissà quali contenuti scabrosi. Si prevede semplicemente che, in occasione della Giornata nazionale contro l’omotransfobia, possano svolgersi nelle scuole iniziative dedicate a richiamare i valori del rispetto e del contrasto delle discriminazioni e della violenza motivate da orientamento sessuale e identità di genere ». Obiettivi in larga parte condivisibili. Sarà però decisivo capire come verranno declinati questi propositi e, soprattutto, come potrebbe essere strutturato nelle scuole il percorso di avvicinamento a questa Giornata se la legge dovesse superare l’esame del Senato.
Un altro punto interrogativo è legato agli insegnanti. Quelli che dovessero affrontare la questione con serietà – certamente la maggior parte – non potrebbero evitare di confrontarsi con argomenti complessi come il corpo, la differenza, il rispetto, le emozioni, gli affetti, le relazioni. E dovrebbero farlo, come ha spiegato su queste colonne la pedagogista Livia Cadei, che è anche presidente della Confederazione italiana dei consultori di ispirazione cristiana, con la sapienza educativa del «giusto momento», sempre ponendosi dalla parte dei bambini, con un’opera di mediazione efficace e rispettosa delle diverse sensibilità. Occorrerebbero linguaggi adatti e vicini ma, soprattutto, nel caso sarà opportuno chiedere e offrire alle famiglie quella collaborazione giocata sulla reciproca fiducia e sulla trasparenza degli obiettivi che finora è troppo spesso mancata. E si tratta anche qui di un punto decisivo. Nessuna scuola può pensare, su un punto così delicato come l’educazione sessuale, di marciare in senso contrario alla sensibilità dei genitori.
Ma se ogni situazione è occasione, perché la legge Zan, pur con tutti i suoi aspetti problematici che abbiamo già messo in luce, non potrebbe rivelarsi un’opportunità anche in chiave educativa per riflettere, anche nelle scuole, su temi ormai irrinunciabili? La posizione secondo cui non sarebbe corretto affrontare a scuola questi argomenti perché “divisivi” o addirittura imbarazzanti non regge in alcun modo. I nostri ragazzi non solo ne parlano, cercano informazioni, si guardano dentro per capire e per capirsi, ma arrivano a definire come “normali” scelte che interrogano e, in molti casi, spiazzano noi adulti.
Nell’ultimo Rapporto Giovani della Fondazione Toniolo (Adolescenti e relazioni significative. Indagine generazione Z 2018-2019) che indaga, tra l’altro, sulle relazioni sentimentali della fascia d’età tra i 13 e 18 anni, si evidenzia che il 10,3 dei ragazzi e il 4,6 delle ragazze dichiara di avere un rapporto stabile omosessuale. I ricercatori che si sono trovati di fronte a queste risposte sorprendenti, non fosse altro per le percentuali, che tra i ragazzi non corrispondono a ciò che le statistiche hanno frequentemente indicato per quanto riguarda la consistenza numerica della popolazione non eterosessuale (3-5%), hanno cercato di capire quanto fossero credibili queste dichiarazioni. Ma da una parte la garanzia dell’anonimato, dall’altro l’esame di una serie di parametri che svelano la credibilità o meno delle risposte, non hanno potuto che confermarne l’attendibilità. Possiamo prendere questi dati come trascurabili? Possiamo fingere che non facciano emergere una tendenza o non rivelino nulla di significativo? Certo, possiamo farlo. Ma anche ammettendo il peso di curiosità, condizionamenti culturali e propensione, in alcuni, a farsi affascinare dalle tendenze più trasgressive, la libertà con cui una percentuale così rilevante di ragazzi ha messo nero su bianco all’interno di un sondaggio le proprie preferenze sessuali, indica un livello di trasparenza – o un grido di aiuto – che forse pochi anni fa sarebbe stato impensabile. E questo non diventa interessante solo per i sociologi, ma rappresenta soprattutto per le famiglie un dato urgente su cui riflettere perché ripropone con la forza dei fatti, la questione dell’orientamento sessuale. Una questione “anche” educativa – oltre che esperienziale, ormonale, genetica, culturale, ecc. – che non può essere elusa né dai genitori, né dalla scuola.
Non basta ribadire come un mantra l’evidente suddivisione binaria della natura umana. Una parte dei nostri ragazzi vive anche “quelle” esperienze e ci chiede di non fingere indifferenza, di essere accolta e aiutata a capire. Ma chi ha competenze e strumenti per farlo in modo coerente e sereno? E in questo modo non si aprirebbero le porte ai propugnatori della cosiddetta cultura gender? Qualche considerazione è necessaria. Non tutti gli approfondimenti sulla questione del genere – come illustrato lo scorso anno dal documento della Congregazione per l’educazione cattolica, Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione – sono un cedimento alla cultura che, secondo la semplificazione corrente, vorrebbe appiattire la differenza sessuale nella logica di un’autodeterminazione senza limiti e senza barriere. Ma il documento vaticano spiega che è necessario fare una distinzione tra ideologia e studi sul gender. Mentre la prima, come ricordato anche da papa Francesco, nel «rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili», finisce per imporsi come «un pensiero unico che determina anche l’educazione dei bambini», non mancano ricerche sul “gender” che cercano di approfondire adeguatamente il modo in cui si vive nelle diverse culture la differenza sessuale tra uomo e donna. «In relazione a questi studi – si dice nel documento vaticano – è possibile aprirsi all’ascolto, al ragionamento e alle proposte».
E su questi aspetti, si ammette, ci sono alcuni elementi di ragionevole condivisione, come il rispetto di ogni persona nella sua peculiare e differente condizione, affinché nessuno, a causa delle proprie condizioni personali (disabilità, razza, religione, tendenze affettive, ecc.), possa diventare – scrivono gli esperti vaticani – oggetto di bullismo, violenze, insulti e discriminazioni ingiuste. Che è poi quello che papa Francesco scrive in Amoris laetitia (n. 250). Che sono, poi, le intenzioni migliori della legge Zan. Ecco perché, pur considerando i rischi ideologici oggettivi e già evidenziati, non è stravagante cogliere nell’articolo della legge che sollecita le scuole ad approfondire, insieme alla questione omofobia, gli indispensabili aspetti antropologici per comprenderne significati e relazioni, un’occasione per capire e accompagnare il cammino dei nostri figli più disorientati.
Sarebbe molto comodo concludere che questo disorientamento sia causato dalla persistente invasione del “gender”. Ma è davvero cosi? Non c’è una minima percentuale di responsabilità anche nel fatto che le famiglie, a loro volta confuse, hanno smesso di essere un riferimento educativo? E che nelle scuole e nelle altre agenzie educative sia così difficile organizzare progetti di educazione all’affettività e alla sessualità capaci di mescolare con saggezza la norma dell’ideale con l’umanità del bene possibile?
Fonte: Avvenire