di Mariolina Ceriotti Migliarese
L’anno trascorso, con le fatiche e le restrizioni che conosciamo, ha messo in luce in modo particolare un fenomeno inquietante: il progressivo rinchiudersi dei nostri adolescenti nello spazio sempre più ristretto delle loro stanze. È una reclusione volontaria, accompagnata da un numero stranamente esiguo di proteste; i ragazzi sembrano aver accettato questa situazione in un modo che ci sorprende ma al tempo stesso ci inquieta. C’è qualcosa che manca in questo silenzioso adattamento, tanto che molti di noi preferirebbero sentirli protestare rumorosamente piuttosto che vederli rinchiusi ore e ore, attaccati allo schermo di un pc o di un cellulare, immersi in attività e relazioni virtuali che ci lasciano chiusi fuori più di qualsiasi porta chiusa a chiave. Ma come è possibile tutto questo? Come è possibile che non prevalga il fisiologico bisogno di muoversi, di esplorare concretamente il mondo, di vivere pienamente il proprio corpo, che ha in adolescenza un valore così centrale?
Le spiegazioni più comuni non mi sembrano sufficienti: io penso infatti che alla base di questo ritiro sociale ci sia qualcosa di più, che inizia da lontano e ben prima della pandemia: forse, invece di educare i nostri figli, ci siamo rassegnati ad addomesticarli. Educare e addomesticare sono processi che formalmente si assomigliano: in entrambi i casi si tratta di indurre comportamenti che sappiano tenere adeguatamente conto del contesto sociale. L’esuberanza naturale del bambino e la sua incapacità di esercitare un controllo sulle pulsioni e le emozioni spostano sull’adulto la responsabilità di regolarlo e contenerlo; grazie al nostro intervento, fatto soprattutto di indicazioni e divieti, poco alla volta il bambino impara ciò che ci aspettiamo da lui e cerca di conformarsi alle nostre aspettative. Ma cosa ci aspettiamo oggi dai nostri figli? Verso quale vita li vogliamo accompagnare? Quali valori ci sono dietro ai comportamenti che pretendiamo di far loro imparare?
La differenza tra educare e addomesticare dipende dal porsi questa domanda. Addomesticare qualcuno non richiede domande di senso, ma solo obiettivi di comportamento. Se ci basta che un figlio “stia buono” e che “si comporti bene”, è sufficiente trovare strumenti che di volta in volta si mostrino adeguati alla necessità; tra questi, cellulari e pc con l’infinita varietà di giochi e programmi a disposizione sono diventati ormai la risorsa più facile, efficace e sempre a portata di mano: a casa come al ristorante, in auto come in casa di amici. A partire dal primo anno di vita, grazie a questi strumenti è possibile ottenere il loro silenzio, neutralizzarli, stare un po’ in pace. È possibile più avanti farsi obbedire con ricatti o promesse (“ti tolgo il cellulare/ il gioco; ti regalo il cellulare/ il gioco nuovo”); è possibile persino, con gli adolescenti, raggiungere un controllo sociale almeno apparente, ottenendo che per mesi rinuncino ad uscire e a incontrarsi senza protestare, inchiodati a chat, social, serie tv. Ma davvero addomesticarli ci basta? Addomesticarli tiene i figli vicini e riduce la paura per i pericoli che possono incontrare vivendo, ma apre anche al rischio di far implodere la vita; soprattutto i ragazzi più fragili ce lo stanno mostrando, con la fatica di riprendere il corso normale delle cose, di rientrare a scuola, di riallacciare i contatti reali col mondo.
Educare prevede la fatica (ma anche la preziosa opportunità) di implicarsi in una relazione: è condurre verso il mondo; è incoraggiare a fare esperienza, a mettersi alla prova, a pensare e ad agire in proprio. È indicare una direzione che possa appassionare: per questo educare richiede avere valori in cui credere, per inserire indicazioni e divieti in un contesto di senso. In caso contrario, forse i nostri figli non ci contesteranno: cercheranno di adattarsi quando è necessario, ma alla fine ignoreranno tutto ciò che proviene da noi come qualcosa di sostanzialmente irrilevante.
Fonte: Avvenire