di Antonella Mariani

Parla l’autrice del libro-verità sul business delle interruzioni di gravidanza negli Stati Uniti: la nostra missione era fare soldi. Dopo di me 600 dipendenti hanno lasciato

Le vittime dell’aborto? Sono tre: la madre, il bambino e la società. Abby Johnson, autrice del libro-rivelazione ‘Unplanned’ (non previsto, inatteso) che nel 2010, partendo da una imprevista esperienza personale, ha denunciato la squallida realtà delle cliniche per gli aborti, e a cui si è ispirato l’omonimo film che il 28 e 29 settembre è stato proiettato in 40 sale italiane, risponde alle domande di Avvenire dagli Stati Uniti (il libro è stato tradotto in Italia da Rubettino con il titolo ‘Scartati. La mia vita con l’aborto’ ed è ora in libreria con una ristampa).

Signora Johnson, quando ha iniziato a lavorare a Planned Parenthood che aspettative aveva?

Pensavo ciò che tutti pensano quando vanno a lavorare per una clinica degli aborti: che avrei aiutato le donne.

Pensava cioè di poter anche aiutarle a tenere i figli?

La nostra missione a Planned Parenthood era di spingere per l’aborto, a qualsiasi costo. Dovevamo raggiungere delle quote. Avevamo modi eccellenti per convincere le donne ad abortire. A causa della mia esperienza terribile con la pillola abortiva Ru-486, cercavo di indirizzare le donne verso altre opzioni.

Prima di lasciare Planned Parenthood aveva avuto problemi di coscienza?

Ho iniziato a capire che Planned Parenthood non si prendeva davvero cura delle donne. Ciò a cui erano interessati erano i soldi e la maggior parte dei soldi arrivava con gli aborti. Così mi fu chiesto di aumentare la quota di aborti, di convincere le donne a interrompere la gravidanza. Questo fu l’inizio dei problemi con i miei datori di lavoro.

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