di Mariolina Ceriotti Migliarese
Per diventare pienamente se stesso il maschio adulto deve rinunciare alla madre, e non può portarla con sé se non come nostalgia. Non si tratta solo di rinunciare al rapporto infantile con la madre reale, dalla quale crescendo ogni figlio deve prendere le distanze, ma anche e soprattutto di rinunciare alla fantasia inconscia e onnipotente di un ricongiungimento con lei attraverso l’incontro con un’altra donna.
Il distacco dalla madre e la capacità adulta di “stare solo” rappresentano prerequisiti indispensabili all’incontro maturo del maschio con la donna: incontro con il femminile di una donna concreta, con le sue caratteristiche, i suoi limiti e i suoi progetti, così diversa dall’immagine onnipotente e idealizzata che il bambino costruisce della donna-madre.
La potenza dell’archetipo materno è qualcosa di strutturale, perché è legata alla dipendenza biologica e alla sproporzione delle risorse tra mamma e bambino. Questo comporta che, soprattutto per l’inconscio maschile, la madre rappresenta
colei che accoglie tutti i bisogni e dà loro una risposta; la madre è colei che sa mettere il figlio prima di se stessa e dare con generosità senza pretendere in cambio. Ma il rapporto con la madre ha un’altra caratteristica: come diceva lo psicoanalista Franco Fornari, il potere del bambino sulla madre si fonda sulla sua stessa incapacità: «Quanto più il bambino è inetto e bisognoso, tanto più è potente presso il cuore della madre… La potenza del bambino presso il cuore della madre si fonda pertanto sulla sua impotenza».
Non solo dunque la relazione è fortemente asimmetrica, ma è fondata sul bisogno; non è una relazione di scambio, ma di appropriazione: qualcuno prende (il bambino) e qualcuno dà (la madre), e il prendere unilaterale del bambino è implicitamente legittimato dalla disponibilità a dare della madre. Dal punto di vista dello sviluppo, questo configura una modalità affettiva che possiamo definire di tipo narcisistico: in questa modalità, la persona è concentrata solo su di sé, percepisce i suoi bisogni come diritti e mette al primo posto la loro soddisfazione. L’altro è, a tutti gli effetti, solo un oggetto che ha il compito di soddisfare il proprio desiderio, e il suo valore non è un “valore in sé”, ma solo un “valore per me”, che si esaurisce se e quando l’oggetto non è più in grado di dare la soddisfazione attesa.
In questa dimensione, anche il rapporto affettivo e sessuale si trasforma in un rapporto di fruizione, nel quale ci si sente in diritto di prendere dall’altro ciò che serve e finché serve, senza sentirsi tenuti a dare. In questo caso, anche se fanno l’amore, le persone si trovano sul piano di un’affettività pregenitale: un livello infantile dominato dall’appropriazione. Un livello nel quale il rapporto può essere piacevole, ma non riesce ad essere generativo e si esaurisce fino a consumarsi. Perché il rapporto diventi generativo, l’uomo deve imparare a guardare alla donna in modo diverso, scoprendo in lei l’assoluta parità di valore e insieme la differenza che può arricchirlo: deve scoprire la dimensione genitale dello scambio, che richiede riconoscersi l’un l’altro come portatori di doni differenti e preziosi. Con questo sguardo nuovo, l’uomo potrà vedere nella donna che ama non il prolungamento di un fantasma materno, ma piuttosto la compagna che può accogliere il suo dono maschile e aprirsi, se lo vuole, anche alla possibilità di diventare madre.
Fonte: Avvenire