di Claudio Burgio
L’emergenza è la molla della storia perché porta alla luce l’inguardabile, ciò che non si ha il coraggio di affrontare, e offre una prospettiva nuova della realtà. Per questo motivo, l’emergenza educativa di cui si parla da anni e che in queste settimane sembra avere lasciato spazio a uno scenario di esplosività terrificante, non deve essere spiegata dalla banalità di un giudizio superficiale e sommario, ma ascoltata attraverso un itinerario interpretativo che ne indaghi le ragioni più profonde. I fatti che hanno per protagonisti gli adolescenti sono segnali preoccupanti di un disagio non più attribuibile a categorie circoscritte come le «seconde generazioni» o «quelli delle periferie urbane».
Dal mio osservatorio (cappellano nel carcere minorile Beccaria e comunità Kayros di Milano) noto che il fenomeno della devianza giovanile è sempre più trasversale, non necessariamente legato a contesti svantaggiati o a quadri familiari particolarmente disfunzionali. A rendersi responsabili di condotte criminali sono anche figli di famiglie non problematiche appartenenti a strati benestanti della popolazione.
Insomma: chi voglia spiegare certi episodi con la retorica dello ‘straniero pericoloso’ si trova presto smentito dall’oggettività delle indagini (almeno non quelle dei ‘social’). Non è un fattore meramente etnico-culturale a determinare tali condotte, quanto piuttosto una povertà educativa sempre più estesa e pervasiva. Italiani e stranieri, periferie e centro sono categorie che non vanno alla radice del disagio. Nemmeno la pandemia costituisce l’unica spiegazione possibile. Il Covid – pur con tutto il carico di incertezze, chiusure e sofferenze psichiche che comporta – ha solo accelerato fenomeni di trasgressione giovanile già in atto.
Ovunque si parla impropriamente di ‘baby gang’: se fossero davvero associazioni strutturate con chiare gerarchie interne, sapremmo come affrontarle. In realtà, le violenze e i reati messi in atto sono spesso attribuibili ad aggregazioni spontanee di giovani e giovanissimi che a malapena si conoscono sui social. Questo sconcerta ancora di più perché si tratta di gruppi fluidi nei quali prevale l’incoscienza del branco.
Eppure, un reato in adolescenza – per quanto consumato il più delle volte in gruppo – è espressione della solitudine esistenziale, dell’insostenibilità di un rapporto significativo con la comunità di appartenenza e di uno spaesamento identitario che costringe l’adolescente a ripiegarsi dentro un mondo sprovvisto di senso e di prospettiva.
La storia della recente scena Trap rappresentata da Baby Gang, Rondo, Neima, Sacky, Simba La Rue (tutti giovani conosciuti personalmente al Beccaria o in comunità Kayros) non è soltanto quella di ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, costretti a vivere in quartieri-ghetto, in situazioni di evidente svantaggio sociale, segnati fin da piccoli da una mancata inclusione, ma è la trasversale rabbia esplosiva di una generazione senza padri che relega la domanda di senso sullo sfondo e alimenta un malessere inteso più propriamente come ‘malattia dello spirito’.
Non è solo in forza di una cella o di una misura restrittiva della libertà che un adolescente evolve verso una ripresa evolutiva di sé. Come scrive Massimo Recalcati, «la domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza». E allora – di fronte alla narrazione potente e suggestiva del male – qual è il bene che il mondo adulto è ancora in grado di testimoniare? Un ragazzo al Beccaria mi diceva: «I vostri valori sono scatole vuote, perché il bene proposto da molti adulti è solo proclamato, ma spesso non vissuto». Forse ha ragione: c’è un bene presentato nella forma di una narrazione troppo retorica e formale. Un bene scarsamente rintracciabile nelle scelte degli adulti; un bene convenzionale, ma poco convincente che, pertanto, viene inscritto dagli adolescenti nel registro dell’ovvietà.
Quando un genitore mi dice: «Non ho fatto mai mancare nulla a mio figlio», forse non si rende conto di avergli consegnato un bene banale, comodo, facile da ottenere e che non si è confrontato con il dolore della perdita e con il travaglio di una conquista sofferta. È invece la mancanza che genera desiderio, apre la coscienza alle domande esistenziali più profonde e genera cambiamento.
Fonte: Avvenire.it