di Mariolina Ceriotti Migliarese
Nell’incontro con le famiglie e i ragazzi, soprattutto adolescenti, si respira oggi un clima emotivo difficile: se dovessi scegliere una sola parola per definirlo parlerei di un profondo “scoraggiamento”. Si ha scoraggiamento quando non si riesce più a mettere il cuore nelle cose: vengono allora a mancare la fiducia e la speranza necessarie per mettere passione in ciò che si fa, e le energie che servono per progettare il futuro.
L’adolescenza è quello snodo cruciale della crescita in cui la vita stessa si incarica di mettere in circolo energie nuove; è una sorta di primavera, che si ripresenta come un piccolo miracolo generazione dopo generazione: giovani uomini e donne che si muovono inquieti alla ricerca di sé, della propria identità e del proprio posto nel mondo, generando lo scompiglio ma anche la vitalità che ogni cosa nuova comporta.
Per questo, il silenzio assordante delle nuove generazioni è qualcosa che inquieta e spaventa; all’esplosione caotica e vitale che ci dovremmo aspettare si va sostituendo qualcosa che assomiglia a un’implosione: ragazzi che si vanno facendo sempre più passivi, ritirati nelle proprie stanze, adattati a relazioni virtuali, disinteressati alla dimensione politica, culturale e sociale della vita.
Questa implosione porta spesso con sé un corteo preoccupante di sintomi, di stampo autolesivo: ragazzi che si tagliano, che non mangiano, che non studiano, che non escono più di casa. Tutta l’energia della crescita, che dovrebbe spingerli alla conquista del mondo, si trasforma in una rabbia impotente rivolta principalmente contro se stessi, mentre il mondo adulto va catalogando questo imponente disagio soprattutto come disturbo psichico. In una spirale preoccupante, ci limitiamo ad aumentare interventi “di cura” a corto raggio, senza cogliere il messaggio che gli agiti degli adolescenti cercano di trasmettere.
Ma perché i nostri ragazzi dovrebbero lottare per vivere, quando ricevono da noi solo messaggi di morte? In modo diretto o indiretto, il mondo adulto chiude alla speranza: bambini che è meglio non far nascere, anziani e fragili che è meglio far morire, spasmodica attenzione per tutto ciò che può farci dimenticare (con droghe da legalizzare, divertimenti estranianti, consumismo sfrenato) che la vita è breve e destinata a finire. La pandemia ha finito con il dare il colpo di grazia, aprendo alla paura di pericoli sempre più insidiosi e pervasivi, cui si può sfuggire solo richiudendosi in ambiti vitali sempre più ristretti. I nostri ragazzi, con la loro terribile passività, stanno attaccando la generazione degli adulti, colpevoli di un grave vuoto di speranza.
Se dunque vogliamo “rincuorare” i nostri figli e rimettere in moto un futuro che sembra velocemente scomparire, dobbiamo domandarci che cosa accende il cuore e rende la vita appassionante e degna di essere vissuta. Chi sta cercando se stesso non può sopportare anonimato e invisibilità; chi sente premere le emozioni che la crescita regala ha bisogno di investirle, pena un cortocircuito implosivo o esplosivo. Ciò che rende la vita interessante non è una virtualità onnipotente e fine a se stessa, ma la possibilità di lasciare un segno capace di incidere sulla realtà e di trasformarla. Credo sia ora di far capire ai nostri ragazzi che oggi siamo noi ad avere bisogno di loro, della loro fantasia, della loro energia, della loro allegria; siamo noi ad avere bisogno del loro sguardo nuovo, capace davvero di trasformare il mondo.
Fonte: Avvenire