di Massimo Calvi
Lo psicoanalista: «Il riferimento è la cultura patriarcale. Ma è il legame interminabile con la madre a generare rapporti simbiotici, nicchie narcisistiche. I maschi violenti? Analfabeti emotivi»
Patriarcato, narcisismo, violenza di genere, educazione all’amore… In seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin è scaturito un dibattito pubblico – doloroso, ampio, necessario – che ha visto intrecciarsi questioni afferenti ad ambiti diversi, offrendo letture culturali e di ricostruzione storica, temi tipici della psicoanalisi, dell’analisi sociologica come della pedagogia. Ne abbiamo parlato con Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano e saggista, osservatore attento delle trasformazioni della società contemporanea e dei ruoli familiari.
Nella vicenda del femminicidio di Giulia che ruolo può aver avuto la cultura patriarcale? È ancora una lettura efficace?
Il riferimento alla cultura patriarcale è necessario, imprescindibile direi. È lo sfondo inconscio collettivo della violenza sulle donne. Secondo questa cultura, che ha dominato in Occidente sino alla rottura degli anni Sessanta col ‘68 e con i movimenti femministi, la donna viene concepita come afflitta da una minorità ontologica, cognitiva e morale. L’uomo viene, di conseguenza, autorizzato a esercitare su di essa un potere disciplinare che giustifica anche il ricorso alla violenza. Basterebbe riguardare “Comizi d’amore” di Pasolini per farsi un’idea precisa del carattere pervasivo di questa rappresentazione nei rapporti uomo-donna nel nostro paese prima del ‘68. Nondimeno è vero anche che ci troviamo in un altro tempo e che la condizione della donna è profondamente mutata.
In che senso? Come è avvenuta questa trasformazione?
La cultura maschilista, come figlia naturale dell’ideologia del patriarcato, non è più in una posizione dominante. Sarebbe impossibile non riconoscerlo. Ma la sua brace non è del tutto spenta. Dobbiamo inoltre distinguere due facce di quella ideologia. Una è rappresentata dall’odio sessuofobico nei confronti delle donne. La sua incarnazione più recente è quella della polizia morale iraniana che esige la cancellazione del corpo femminile. È la terribile eredità del nostro Malleus maleficarum che identificava le donne non rassegnate all’obbedienza passiva nei confronti degli uomini con le streghe. L’altra faccia del patriarcato, quella più in ombra che si fa fatica a nominare e che invece è centrale per comprendere l’assassinio di Giulia, è quella del legame interminabile con la madre.
Questa lettura ritorna frequentemente in vicende simili. Posto che non si tratta di una prospettiva giudicante in relazione a un caso specifico, che cosa si intende di preciso?
I legami primari non si interrompono, ma tendono a prolungarsi nella vita adulta riproducendo la fusionalità e la possessione che li caratterizza originariamente. È qualcosa che non appartiene al medioevo ma riguarda profondamente la cultura del nostro tempo. La cultura del successo individuale e del principio di prestazione rende, infatti, difficile l’elaborazione del fallimento e dello scacco e stimola la nascita di rapporti rifugio, adesivi, simbiotici, di nicchie narcisistiche separate dal mondo, delle specie di “reinfetazioni” fantasmatiche, riparo da una realtà precaria, minacciosa, spaesante…
Cosa c’è a monte di un femminicidio? La volontà di dominio e di possesso? La difficoltà nella relazione con un “altro”, una persona diversa? L’incapacità di affrontare un rifiuto?
È un mostro a due teste. La prima è quella del narcisismo, la seconda è quella della depressione. La violenza maschilista come spinta al dominio sul partner ridotto a proprietà esalta la dimensione narcisistica. Ma essa porta con sé anche il gelo e il buio sconfinati della depressione: «Ti domino sino al punto da ucciderti in modo tale che tu non possa mai abbandonarmi perché se tu mi abbandonassi non resterebbe niente di me».
Come mai a uccidere, nel contesto di una relazione, sono quasi sempre i maschi?
Come dicevo, ci troviamo di fronte alla brace della cultura patriarcale. I maschi violenti vivono la donna come una minaccia per la loro identità. Sono emotivamente analfabeti. La spinta al possesso manifesta la loro fragilità di fondo. Di fronte alla ferita narcisistica di un abbandono possono reagire violentemente perché non tollerano la libertà della donna che mette sottosopra il loro prestigio fallico.
La dissoluzione della figura paterna nella società ipermoderna, tema che le appartiene, ha a che vedere con determinate forme di violenza?
Non c’è dubbio. Bisogna infatti distinguere la rappresentazione patriarcale della paternità dal principio paterno. È questo un tema che attraversa anche la predicazione di Gesù. Il padre che detiene il potere facendone un uso sadico genera violenza anziché limitarla. È la figura terribile del padre-padrone da cui giustamente il Dio delle Sacre scritture si differenzia. Si può leggere in questo modo la terribile stagione del totalitarismo nel Novecento: il padre-Duce, il padre-Fuhrer rassicura le folle negando la libertà. Diversamente il principio paterno introduce una Legge che sa contenere la violenza nella misura in cui ricorda che l’essere umano non può essere tutto. È questa, infatti, l’origine prima della violenza umana: la spinta a voler essere tutto. È quello che accade nel nostro tempo. Il principio paterno corregge questa spinta ricordando che l’essere umano è sempre non-tutto.
L’idea stessa di maschile e femminile oggi sembrano in crisi. L’amore ha ancora bisogno di questa differenza?
L’amore, diceva Lacan, è sempre eterosessuale. Con l’aggiunta però che dobbiamo imparare a non ridurre l’eterosessualità alla differenza anatomica tra i sessi. L’amore è eterosessuale in quanto è sempre amore per l’eteros, per l’altro, per la sua differenza… L’esistenza di questo amore non è affatto garantito dalla differenza anatomica, come gli psicoanalisti sanno bene.
Una delle paure che si sta facendo largo tra le ragazze, e tra i genitori, di fronte a un femminicidio commesso da “un bravo ragazzo”, è che tutti i maschi siano potenzialmente pericolosi. Può veramente accadere a chiunque?
I genitori più che osservare poliziescamente i loro figli dovrebbero preoccuparsi di testimoniare l’amore in famiglia. Se un figlio cresce in una famiglia dove l’affettività non fa paura, dove la cura e l’attenzione per l’altro sono degli esercizi quotidiani, dove il rispetto nei confronti del femminile si realizza nei fatti e non a parole, dove non c’è ricorso alla violenza o all’insulto, non diventerà un uomo che odia le donne.
Fonte: Avvenire