di Luciano Moia
Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta: educare non vuol dire regalare la felicità ai figli, ma accompagnarli a diventare adulti consapevoli. Spiegate loro che il virtuale non è reale
L’emergenza educativa? È come l’emergenza ambientale. Per affrontare entrambe servono competenze non casuali e una visione rivolta al futuro. Ciò che facciamo oggi ai nostri figli, proprio come le attenzioni rivolte all’ambiente, avrà conseguenze sulla loro vita e su quella della società. E se all’ambiente dedichiamo, giustamente, tante attenzioni, perché non dovremmo porre tutte le cure necessarie, e le giuste attenzioni, per l’educazione dei nostri ragazzi?
In realtà oggi la maggior parte degli adulti vorrebbero “fare di tutto per essere ottimi educatori dei propri figli”. E la domanda che regolarmente queste mamme e questi papà pongono è: “come posso far crescere un figlio felice?”. Preoccupazione comprensibile ma punto di partenza sbagliato. Lo spiega Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il Centro di Scienze biomediche dell’Università degli studi di Milano, che nel suo ultimo libro sull’emergenza educativa – Allenare alla vita. I dieci principi per diventare genitori autorevoli (Mondadori, pagg. 190, euro 18,50) – rimette a posto obiettivi e percorsi in un mondo dove ci sono buoni propositi ma tanta confusione e troppi luoghi comuni. A cominciare dalla felicità che non dev’essere regalata “chiavi in mano” dai genitori, ma “un figlio deve andarsela a cercare da sé. Non può ottenere la chiave della felicità dal genitore che lo ho messo al mondo”. Ma se non può regalare la felicità a un figlio, quale dev’essere il ruolo del genitore? “Il suo compito fondamentale – spiega Pellai – dovrebbe essere quello di permettere a un figlio di diventare a sua volta adulto. Un adulto competente”. Quindi con un progetto di vita per un grado di autorealizzazione soddisfacente.
Obiettivo importante ma tutt’altro che facile perché oggi i nostri figli sono immersi in una sorta d mondo parallelo che sfugge al controllo degli adulti. I nostri figli non vivono più la comunità, ma la community “che detta regole e suggerisce comportamenti, che genera attitudini e spinge verso modelli di vita all’interno di un sistema che è totalmente impermeabile ai principi educativi, alle regole e all’osservazione del mondo adulto”. Chi sono i nuovi pedagogisti? Risponde Pellai: “Sono gli influencer”, in genere “molto belli sul piano estetico”, con “competenze comunicative fuori dal comune” che “propongono modelli aspirazionali e ispirazionali ben differenti da quelli prospettati dagli adulti”. Anche perché attingono le loro proposte da un mondo pressoché sconosciuto alle mamme e ai papà. L’esperto propone un test: “Chiedete ai vostri figli i nomi dei dieci influencer che seguono di più e scoprirete che per voi sono quasi tutti illustri sconosciuti”. Stesso discorso per gli artisti musicali e le serie tv preferite. Ma come si va a penetrare in questo mondo parallelo? Come si fa ad uscire da questa “sorta d buco nero in cui siamo precipitati senza quasi capire perché e come sia potuto accadere?”.
Alberto Pellai propone di ragionare su dieci affermazioni che possono aiutarci a fare chiarezza in questo impegno educativo. Dieci principi che, per diventare efficaci, non basta enunciare, occorre vivere, di cui noi adulti dobbiamo diventare “testimoni, protagonisti, esempi, promotori, in un’assunzione di responsabilità che non possiamo delegare a nessun altro”. Partiamo allora con questa breve sintesi (nel libro naturalmente ogni affermazione è approfondita in modo più completo) che può essere presa come un piccolo manuale di educazione per i figli adolescenti.
L’adulto è l’adulto. Il rischio di perdere autorevolezza nel ruolo.
È il punto di partenza da cui non si può prescindere. “Di fronte ai nostri figli, noi deteniamo il potere delle decisioni. Siamo dispensatori dei sì ma anche dei no che, come ricorda il bestseller di Asha Phillips aiutano a crescere. È un compito di grande responsabilità”. E non sempre è divertente e rende amabili, ma è indispensabile perché siamo noi genitori che dobbiamo dar osservare a un figlio il principio di realtà. “L’adulto indica la direzione, anche se è quella che il minore preferirebbe non scegliere”. Ecco perché il primo obiettivo non è mai quello di far felici i nostri figli ma di accompagnarli in modo autorevole. E sull’autorevolezza si potrebbe aprire un lungo capitolo. Per Pellai “l’adulto autorevole è colui che è in grado di condividere con chi gli viene affidato nella relazione educativa due aspetti fondamentali: la testimonianza di un’adultità risolta e competente, la responsabilità connessa alla sua capacità di definire quali sono i no e i sì funzionali alla crescita”. Può darsi, anzi è quasi certo, che l’adolescente contesti queste decisioni. “Ma mentre lo fa sente di avere davanti a sé una persona affidabile”.
Invertire la rotta verso il “tutto e subito”. Il rischio associato allo strapotere della gratificazione istantanea
Il secondo punto su cui l’esperto intende far chiarezza è il valore sovradimensionato che ha assunto la gratificazione istantanea nella vita dei figli. Come superare il mito del “tutto e subito”, che in ambito educativo è uno dei peggiori nemici. “La gratificazione istantanea – spiega Pellai – non è connotata solo dal fatto che mi aspetto che tutto accada nel modo in cui io penso che debba accadere. Ma comporta anche il desiderio di ottenere piacere e soddisfazione, in un modo e in un tempo velocissimo, spesso con poco sforzo”. E si tratta di un’illusione pericolosa. Spesso alimentata da noi genitori che pretendiamo per i nostri figli sempre posizioni di eccellenza, a scuola, nelle attività sportive, perfino nel saggio di Natale o di fine d’anno. Tutta un’ansia da parte nostra perché i figli non sperimentino mai l’ansia. C’è una ragione che spiega, ma non giustifica questo atteggiamento? Sì, si legge nel testo: “I genitori degli adolescenti di oggi sono la prima generazione di adulti che cresce figli immersi in un mondo costruito completamente sull’offerta di stimoli che soddisfano il bisogno di gratificazione immediata”. Perché quello virtuale è un mondo che “non si spegne mai, che alza sempre l’asticella dell’attrattività, della desiderabilità e della gratificazione istantanea”. Siamo nell’era della dopamina virtuale che ci ha fatto dimenticare una verità fondamentale: ogni piacere esige un prezzo. E spesso è un prezzo, in termini psicologici, esistenziali, relazionali, che alla fine sarà troppo elevato da pagare. Ricordiamolo ai nostri figli.
Virtuale non è reale. Il rischio di trasformare la vita in un fake
Quali sono le dimensioni che modellano la forma e il funzionamento del nostro cervello? “Le relazioni e le esperienze”, osserva Pellai. “Il modo in cui veniamo amati e curati dai nostri adulti di riferimento dà la prima fondamentale forma al nostro cervello. Il nutrimento fisico ed emotivo che riceviamo nel primo tempo della vita è di eccezionale importanza perché costruisce le fondamenta del nostro funzionamento mentale”. Esperienze reali, concrete, a cui però oggi i nostri ragazzi aggiungono, in modo ormai preponderante, la dimensione virtuale. La community invece della comunità, come si diceva prima, con tutte le incognite del caso. A complicare le cose c’è il fatto che sulle scelte da proporre il mondo adulto, esperti compresi, si è diviso: da una parte i “tecnoentusiasti” – secondo cui le tecnologie sono sempre e comunque un’opportunità a cui i minori vanno accompagnati perché possano diventare una generazione sempre più smart – e i “tecnoscettici” – secondo cui le nuove tecnologie sono qualcosa che “una volta entrate nella vita dei giovanissimi, rischia di alterarne le curve di crescita sul piano sia fisico che mentale”. Pellai, anche sulla base di una serie di studi importanti a livello internazionale, si schiera con i secondi e propone “un ritardo progressivo e crescente” nel consegnare le tecnologie ai figli, come sostenuto dai tanti genitori che stanno aderendo ai “patti digitali di comunità”. Ma anche “una revisione delle modalità con cui la scuola spesso dà per scontato che i nostri figli, già in età precocissima, siano possessori di uno smartphpone per uso personale”.
Basta con il “tutti contro tutti”. Il rischio di non riuscire più a rigenerare l’alleanza tra adulti
Qui il discorso è chiarissimo. Lo scontro tra genitori, docenti, educatori di vario genere, come gli allenatori sportivi o i catechisti, è arrivato a livelli inaccettabili e occorre cambiare registro. “Quando c’è in ballo la tutela della sicurezza emotiva dei nostri figli, sembra che il mondo adulto si trasformi in una sorta di agone sportivo, dove tutti scendono in campo ma non per fare squadra, bensì per farsi reciprocamente le scarpe”. E si tratta di un grave errore perché in questo modo tutti perderanno autorevolezza agli occhi dei ragazzi che finiranno per non capire più “quale sia la direzione e dove – realmente e concretamente – stia l’autorevolezza dei ruoli. E li porta a sempre più a rintanarsi in una confort zone in cui cercare la piccole sicurezze del qui e ora”.
Non è sempre necessario essere il numero uno. Il rischio di dare più valore al traguardo che al percorso.
Il triangolo pedagogico adottato per rappresentare le dinamiche formative prevede che “l’età evolutiva sia un tempo in cui si apprendono tre aspetti della vita: il sapere, il saper fare, il saper essere”. Se sui primi due traguardi i nostri ragazzi sono, nella maggior parte dei casi, ben sistemati, sul “saper essere” cominciano i problemi. Un vuoto preoccupante perché impedisce ai nostri ragazzi di resistere nelle situazioni negative, di trovare la forza interiore per reagire e andare avanti comunque. E qui occorre riflettere e invertire la rotta: “La conquista del saper essere comporta che il mondo adulto di riferimento non si concentri solo su un’educazione finalizzata alla dimensione performativa, ma nel tempo dell’età evolutiva favorisca lo sviluppo e la costruzione di un’identità e di un senso di sé adeguato”.
La velocità è un falso mito. Il rischio di non accorgersi che chi va più piano, va sano e lontano
L’esempio scelto dall’autore per far comprendere che il mito della velocità, quando si parla di educazione, è decisamente negativo, è quello dei diari scolastici oggi sostituti dai registri di Classroom. Tutto virtuale, tutto più preciso e veloce. Ma è davvero così. Niente affatto, argomenta Pellai, quel tempo che si impiegava a scrivere sul diario le indicazioni dell’insegnante, magari chiedendo chiarimenti, non era tempo sprecato. Mentre il docente detta “nel cervello dello studente si attivano molte aree corticali associate a memorie differenti: quello grafo-motoria (che scrive ciò che viene dettato); quella uditiva (che ascolta le parole dell’insegnante); quella cognitiva (che cerca di comprendere il significato di ciò che dev’essere trascritto); e quella visiva (che osserva le parole che vengono tracciate sul foglio con la penna). Insomma, il semplice esercizio della compilazione del diario allena funzioni che, in altro modo, non verrebbe stimolate. Mentre la Classroom è più rapida e sicura ma ignora un fattore fondamentale: per chi cresce non è importante solo il fine, ma anche il “come”. Se dimentichiamo questi percorsi avremo ragazzi bravissimi con il digitale, ma che on sanno più allacciarsi le stringhe delle scarpe.
Ritrovare la sensibilità. Il rischio di normalizzare ciò che normale non è
La sensibilità è un valore da difendere e da rispettare. Non è vero che oggi tutto dev’essere concesso al di là dell’età. Per esempio, la visione di un figlio vietato ai minori di 18 anni dovrebbe essere sconsigliata a un ragazzo di 14 anni. Inevitabili le repliche: “Ma come? Non siamo più nel Medioevo, oggi lo fanno tutti”. Ma si tratta di un grave errore. “Togliere tutti i paletti e trasformare in normale ciò che invece dovrebbe essere confinato alla dimensione della trasgressione provoca, implicitamente, un innalzamento costante del punto in cui viene posizionata l’asticella di ciò che è considerato lecito e normale rispetto a ciò che invece non lo è”.
Riempire il vuoto interiore. Il rischio di crescere senza Dio
Tema importantissimo e, osserva l’esperto, “controverso al tempo stesso”. Solo fino a pochi decenni fa “la crescita spirituale, la conquista di una coscienza morale ed etica erano dimensioni pensate e coltivate all’interno di una formazione religiosa del bambino e della bambina. È lì che un minore si confrontava con il concetto di bene e di male e lo interiorizzava in base alla propria sensibilità, esperienza di vita e al genere di insegnamento ricevuto”. E quasi tutte le famiglie aderivano alla proposta educativa delle parrocchie. “L’ingresso nel Terzo Millennio è coinciso con un processo di intensa e radicale secolarizzazione della società”. Non solo chiese vuote quindi, ma anche sempre meno adesioni ai percorsi di iniziazione cristiana. Ma se, argomenta Pellai, è giusto che la Chiesa – e le Chiese – si interroghi sulle modalità con cui rinnovare la propria proposta, non bisogna minimizzare l’importanza di educare alla dimensione spirituale: “Che cosa accade a bambini e bambine, ragazzi e ragazze la cui formazione spirituale, morale ed etica non sembra più avere un progetto, un luogo, un percorso dedicati? Possono i nostri figli diventare grandi senza affrontare il tema della presenza e dell’esperienza di Dio nella propria vita?”. Le tante azioni pericolose, trasgressive, spesso penalmente perseguibili compiute dagli adolescenti manifestano un vuoto di valori preoccupante, mentre “confrontarsi mentre si cresce, con le categorie del bene e del male… rappresenta un prerequisito necessario per costruire la propria identità non solo nella dimensione dell’Io, ma anche in quella del Noi”.
Dall’Io al Noi. Il rischio di trasformare l’altro in un ingombro
Oggi ci sono situazioni in cui, dentro i ritmi convulsi della società, i figli vengono percepiti come un intralcio “verso tutto ciò che il palinsesto dell’esistenza può prevedere”. Non tutti i genitori, naturalmente, la pensano in questo modo. Anzi la maggior parte vorrebbe avere più tempo a disposizione da trascorrere con i figli. Ma questa rimane una società in cui non è mai agevole mettere al mondo ed educare i figli. “Manca una spinta sociale, culturale e politica ad assumersi la responsabilità di spostarsi dalla dimensione dell’Io alla dimensione del Noi, necessaria in una comunità in cui ci sono bambini e adolescenti che non possono essere affidati solo alla responsabilità di chi li mette al mondo, ma che devono appartenere appunto a un progetto di genitoralità collettiva e sociale”.
Vincere la tentazione del “politically correct”. Il rischio di trasformare l’autorevolezza educativa in una ricerca di popolarità e consenso
L’ultima indicazione, ma non la meno importante, riguarda la necessità di affrontare quella che Pellai definisce “la frantumazione della verità che uccide ogni forma di reale e oggettiva autorevolezza”. Un relativismo che da culturale diventa poi inevitabilmente anche educativo, e che viene alimentato anche dal web e dai social: “Siamo i primi genitori i cui figli vengono addomesticati e addestrati dal marketing strategico”. Ecco perché è difficile orientarsi, identificare la voce migliore e più affidabile. In questa confusione sarebbe comodo, spesso anche conveniente, allinearsi al “politically correct”, ma lo specialista dell’educazione , e anche il genitore consapevole, devono andare oltre “non fermarsi all’attrattività di uno slogan”, ma accettare il dialogo e il confronto senza timore di assumere posizioni sgradevoli e, all’apparenza, desuete. L’educazione dei nostri figli non può essere subordinata al “politically correct”.
Fonte: Avvenire