di Francesco Ognibene
I dati Istat certificano la discesa del numero delle nozze nel 2023, con un’accelerazione improvvisa nei primi 8 mesi del 2024. Lo specchio delle cifre sulla denatalità. È l’inverno della speranza
Sempre meno, sempre più tardi. Il rapporto degli italiani con il matrimonio si va facendo molto complicato, con un’accelerazione del calo nel numero di nozze che sembra ricalcare per rapidità il declino demografico. Come il precipitare insieme di due impegni per un futuro via via più nebbioso. I dati Istat sul 2023 confermano una discesa che si protrae da tempo e che ha portato i matrimoni a quota 184.207, segno di una disaffezione ormai endemica dopo il naturale “rimbalzo” post-Covid (nel 2020 le unioni furono 96.841, due anni dopo 189.140). E se in un anno la contrazione è “solo” del 2,6%, i primi 8 mesi del 2024 parlano di un inverno nuziale (meno 6,7%) parallelo a quello procreativo (da gennaio a settembre le nascite in meno erano già state 4.600).
La “società instabile” non genera figli né progetti di lungo periodo. E la prevalenza dei riti civili su quelli religiosi (siamo ormai sei a quattro) è solo la conferma che davanti a un “per sempre” l’esitazione cresce, come un non fidarsi di quel che può riservare il domani, attendendo più che si può prima di slanciarsi (34,7 anni per gli sposi e 32,7 per le spose). Il “contagio” sta arrivando anche alle unioni civili, ancora in crescita l’anno scorso (3.019, più 7,3%,) ma già in ribasso di poco più di due punti nel 2024. Il freno a mano sulle relazioni stabili – l’Istat lo definisce con eleganza sociologica «ridimensionamento della nuzialità» – conosce una sola eccezione: le seconde unioni (o successive) per almeno uno dei coniugi, una quota di matrimoni che con 44.320 cerimonie ha toccato il suo record, con l’incidenza relativa che sale a un quarto del totale delle nozze e un balzo di oltre 7 punti quando a risposarsi sono tutti e due.
L’altra faccia delle nozze sparite sono le convivenze, che nel gergo Istat suonano “unioni libere”, più che triplicate in vent’anni, sino al milione e 600mila della stima attuale. Quando i numeri ritraggono l’evidente crisi di stima per una realtà umanissima come l’unione tra due persone, abbastanza solida da formalizzarsi in un impegno davanti alla comunità, c’è qualcosa che ci interroga tutti nel profondo. Perché ci si sposa sempre meno, come se il matrimonio avesse in sé qualcosa di insidioso, o di percepito improvvisamente eccessivo rispetto alle spalle di chi pure potrebbe sceglierlo? Cos’ha prodotto quest’altra rottura del passaggio generazionale di un valore determinante nella vita delle persone? L’Istituto di statistica ribadisce “macro-motivi” già noti: l’allungamento degli anni di studi, gli impieghi giovanili malcerti e poco remunerati, la protezione persino eccessiva della famiglia d’origine, le spese esorbitanti per la cerimonia (si parla di una media di 21.700 euro, senza contare il viaggio di nozze)…
Ma tra i mali oscuri e innominati di questo tempo l’allergia alle nozze ci dice di un altro pezzo del debito di speranza nel quale sempre più chiaramente siamo impantanati. E pensando ad altri dati che illustrano il desiderio di famiglia e di figli in anni giovanili, quando le due prospettive sembrano ancora lontane, sembra di trovarsi davanti a una fiducia tradita, una promessa di felicità spenta dal realismo del mondo adulto: il “vietato sognare” che lampeggia davanti a ogni progetto per il domani. La prima vittima della revisione al ribasso delle stime sulla propria vita è l’apertura definitiva all’altro, sposa, sposo, figli. Meglio accontentarsi. Ma non è per questo che siamo fatti.
Fonte: Avvenire