di Luciano Moia
Vestiti, gioielli, profumi? No, il dono più grande e più “costoso” è quello di una presenza costante nel “lavoro domestico cognitivo”. Lo spiega una ricerca su 3mila genitori Usa. Urgente riflettere
Arriva da una ricerca il consiglio vincente per noi mariti indecisi sul regalo di Natale da fare a nostra moglie. Lasciamo stare vestiti, gioielli, profumi, gadget tecnologi o, ancora peggio, attrezzature per la cucina e oggettini spiritosi destinati a finire in un cassetto. Il dono più bello che potremmo fare alle nostre mogli è quello della presenza nel “lavoro domestico cognitivo”. Oddio, e di cosa si tratta? Non vuol dire lavare i piatti e passare lo spazzolone quando ce lo chiede lei. Sarebbe troppo semplice e comunque la maggior parte degli uomini, come evidenziano tutte le statistiche, non lo fa. Ma significa condividere la progettualità della vita familiare in tutti i suoi mille e mille aspetti. E quindi ricordare appuntamenti, incombenze, pratiche da assolvere. Pensare alle esigenze dei figli, andare ai colloqui con gli insegnanti. E, soprattutto, farlo in tempo utile, provvedendo senza dilazioni e senza promesse a tempo indeterminato, cancellando quel terribile intercalare del tipo, “vediamo”, “ah sì, ci penserò”, “domani faccio tutto…”.
Insomma, non un generico impegno a esserci fisicamente, ad assolvere qualche lavoretto con il pensiero troppo spesso che vaga altrove. Ma una presenza pensante, operativa, capace di proporre e di intervenire in tutti i momenti e le necessità della famiglia. Proprio come fanno le donne, anche quando sono fisicamente da un’altra parte, anche quando sono impegnate in ufficio per lo stesso numero di ore dei loro partner.
Lo spunto per riflettere sulla differenza tra “presenza passiva” e “presenza pensante” arriva, come detto, da una ricerca sulla capacità di assolvere quello che gli esperti chiamano “lavoro domestico cognitivo”. Proprio quel tipo di impegno che, in tutto il mondo occidentale, fa parte della natura stessa delle mamme e delle mogli. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del carico mentale sulla genitorialità dai ricercatori dell’università di Bath e di quella di Melbourne e pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Marriage & Family. Molto interessante perché ci racconta un’altra sfaccettatura di quella ordinaria genialità femminile di cui noi maschi non smettiamo di stupirci e di ringraziare. Ma, come in tutte le cose, c’è anche un rovescio della medaglia. Questa costante e indefessa capacità di intervento causa a mogli e mamme un carico di stress e di ansia spesso difficilmente sopportabile. Anche perché, come spiega la ricerca, il 70 per cento delle donne si occupano completamente da sole della maggior parte delle preoccupazioni legate alla famiglia.
La ricerca spiega inoltre che il “lavoro cognitivo domestico” è associato a nove grandi gruppi: preparazione dei pasti, cura dei bambini, logistica e orari, pulizie e lavanderia, acquisti, manutenzione della casa, viaggi e tempo libero, finanze e relazioni sociali. Non si tratta di capire “chi fa” queste cose. «Decenni di studi sul lavoro domestico – spiegano i ricercatori – dimostrano che le madri si assumono la maggior parte dei compiti principali e ad alta intensità di tempo per la cura dei bambini». Mentre ai padri rimangono «i compiti episodici e meno urgenti». Quindi è vero che il “lavoro cognitivo domestico” in quanto “amministrativo e gestionale” – per dirla in termini aziendali – è sempre segnato in modo prevalente dall’intervento femminile e quindi caratterizzato da uno sbilanciamento ormai inaccettabile tra madri e padri? L’indagine, condotta su tremila genitori statunitensi, non lascia purtroppo spazio ai dubbi.
Madri e padri intervistati concordano sul fatto che sono le donne a svolgere la maggior parte del “lavoro domestico cognitivo” associato ai compiti fisici tradizionalmente svolti dalle donne. In particola le madri svolgono più “lavoro cognitivo domestico” associato alla pulizia, alla programmazione, alla cura dei figli, alle relazioni sociali e al cibo rispetto ai padri. «Questi compiti – si dice nella ricerca – sono volti a garantire quello che noi definiamo il benessere quotidiano dei membri della famiglia. Il fatto che le madri si assumano questi compiti di carico mentale domestico è coerente con le ricerche sulla distribuzione di genere del lavoro fisico domestico e di cura dei figli». E i padri cosa fanno? Gli esperti spiegano che agli uomini tocca «una quota significativamente maggiore di “lavoro domestico cognitivo” legato alla manutenzione e al finanziamento della casa». Insomma, il “lavoro cognitivo domestico” svolto dagli uomini è episodico e non riguarda le dinamiche quotidiane costanti, come la programmazione delle pulizie della casa, la preparazione dei pasti e la spesa, la cura dei figli. Inoltre, anche su aspetti tecnici, il compito non ricade totalmente sugli uomini. Per esempio, quando si tratta di sostituire un elemento della lavastoviglie o di aggiustare un rubinetto, sostiene di occuparsene il 52% delle madri e il 69% dei padri.
Insomma, da qualsiasi parte la si guardi, anche questa ricerca ci consegna un quadro totalmente sbilanciato, in cui la parità di genere tra le mura domestiche risulta un’ipotesi remota. E – verrebbe da dire – se questo succede negli Stati Uniti, chissà che risultati avrebbe una ricerca del genere dalle nostre parti. Non è soltanto un fatto di costume, una curiosità su cui sorridere. Quando ci affanniamo a cercare le cause di tante disgregazioni familiari dovremmo riflettere un po’ più seriamente su queste asimmetrie mentali e funzionali che alla fine risultano logoranti, causa di malcontento e di insoddisfazioni relazionali all’interno della coppia. Anche perché alla radice di questo squilibrio c’è sempre quella suddivisione rigida dei compiti decisa dalla logica maschilista e patriarcale. Avviare una riflessione seria anche e soprattutto dal punto di vista culturale ed educativo è doveroso per chiunque abbia a cuore l’urgenza di ripensare le dinamiche della coppia.
Altrimenti tutti i discorsi sulla reciprocità uomo-donna e donna-uomo, nella vita relazionale ma anche in ambito pastorale, rischiano di risultare proclami vani e un po’ stucchevoli.
Fonte: Avvenire