di Cecilia Ferrari
L’analisi di una mamma-psicoterapeuta: con quale diritto vogliamo o pensiamo di poterci sostituire ai nostri ragazzi nelle esperienze della vita, evitando loro errori, frustrazioni, fallimenti?
Sarà in libreria nei prossimi giorni Adolescenza 3.0. Interpretare la crisi, curare il disagio (Franco Angeli) di Cecilia Ferrari e Gianluca Marchesini, guida preziosa per tutti coloro che si occupano del benessere degli adolescenti, con particolare attenzione a quelli che affrontano gravi difficoltà psicologiche. Il testo è scritto da due professionisti con anni di esperienza sul campo ed esplora le sfide evolutive e psicopatologiche della fase adolescenziale, distinguendo tra i fattori fisiologici e patologici dello sviluppo. Particolare attenzione è dedicata all’approccio multidisciplinare necessario per affrontare i casi di psicopatologia grave. Il testo descrive anche il progetto SafeTeen, avviato nel 2024, che rappresenta un’innovativa iniziativa di presa in carico ad alta intensità per adolescenti con problematiche psichiatriche severe e le loro famiglie. Il progetto ha preso vita grazie al contributo dell’associazione “C’è Da Fare ETS” di Paolo Kessisoglu e Silvia Rocchi, che ha permesso di raccogliere i fondi necessari per l’avvio dell’ambulatorio. Prefazione di Patrizia Conti e Aglaia Vignoli e postfazione di Paolo Kessisoglu e Silvia Rocchi. Il libro – di cui anticipiamo qui un ampio stralcio del secondo capitolo scritto dalla psicoterapeuta Cecilia Ferrari – sarà presentato venerdì 28 febbraio alle 18,30, alla Libreria Libraccio di Viale Romolo 9 a Milano
Quando in gioventù immaginavo il mio futuro, mi ripromettevo che avrei fatto e soprattutto non avrei fatto tutta una serie di cose nel momento in cui sarei diventata mamma. C’erano in particolare molte frasi che giuravo che non avrei mai detto ai miei figli: ne avevo un chiaro elenco nella testa. Oggi, da genitore, posso dire di aver detto e fatto praticamente tutto quello che mi ero promessa di non dire e non fare. Parlando con diversi colleghi genitori, mi sembra che questa sia una tendenza diffusa tra noi psicoterapeuti, in particolare dell’età evolutiva. Abbiamo molto chiari in testa tanti concetti, idee, teorie (giustissime!), conosciamo abbastanza bene le relazioni, l’importanza di un certo tipo di comunicazione tra genitori e figli fin dalla primissima infanzia, abbiamo lavorato su noi stessi e sulla nostra storia affettiva e relazionale, sul rapporto
che abbiamo avuto con i nostri genitori. Ci sono tuttavia alcune cose che proprio non sappiamo fino al momento in cui ne facciamo esperienza, come del resto succede anche in altre situazioni (…).
Nel lavoro e nella vita privata mi capita di incontrare genitori che vivono la carriera scolastica dei loro figli come e più intensamente della propria. Un compito andato male è il loro compito di genitore andato male,
una nota data al figlio è una nota data a loro come genitori. Questo traspare talvolta da un’insolita forma linguistica in cui le frasi sono declinate al plurale: «Abbiamo un sacco di compiti per domani!», «La nostra insegnante di italiano è un’arpia», «Abbiamo una classe bellissima e molto unita». È facile, per tutti ma ancora di più per chi ha una formazione pluriennale in tal senso, rendersi conto della pericolosità di tali fenomeni identificatori. Ciò che non è facile capire è quanto poco ci voglia a “caderci”, in particolare in questa epoca storica (…).
Qualche generazione fa da questo punto di vista le cose erano un po’ più semplici. La famiglia normativa si basava sulle regole e sulla trasmissione dei valori e dei confini: regole chiare, ribadite con fermezza e
rivestite di grande importanza, da non trasgredire. La famiglia affettiva di oggi dedica particolare attenzione e spazio agli affetti appunto, con stili educativi improntanti all’accoglienza e all’ascolto più che a dare norme e regole. Nella famiglia normativa genitori e figli avevano spazi diversi e definiti, certo a volte con alcune mancanze e alfabetizzazioni emotive carenti, spesso pagate dai bambini nel corso dello sviluppo, ma al contempo con una chiara definizione dei limiti e dei confini. Oggi siamo più in grado di emozionarci davanti e insieme ai nostri figli e anche di parlare con loro di emozioni e sentimenti, il che è sicuramente un aspetto importante e positivo per il loro sviluppo. Ma siamo allo stesso tempo meno capaci di definire i confini dei rapporti verticali, che è giusto che siano e rimangano verticali. E credo che siamo anche un po’ meno capaci (o forse più spaventati) di stare nel nostro spazio tollerando le fatiche, le delusioni, gli errori e i dolori dei figli, che sono strazianti perché si fanno sentire nel cuore e nella pelle come e più che se fossero nostri.
D’altra parte, anche i figli oggi sono meno in grado di deludere le aspettative genitoriali. Le relazioni all’interno della famiglia diventano sempre più “paritarie”, con rapporti basati su rispecchiamenti e valorizzazioni reciproche che rimandano al concetto di invischiamento1, cosa che si manifesta poi anche fuori dalla famiglia. All’“etica del rispetto e della colpa” (io, genitore, ti do ciò di cui hai bisogno e tu, figlio, rispetti le regole; se le infrangi e mi deludi ti puoi sentire in colpa, e quindi poi dovrai riparare), va sostituendosi sempre più spesso l’“etica della responsabilità” (ti vedo, ti conosco, ti riconosco, so che vali e
che hai molte risorse, so che puoi fare certe cose e quindi ti chiedo di farle, così io ne farò altre per te) (Rostagno, 2014).
Questo investimento narcisistico sul figlio e la conseguente mitizzazione dell’infanzia comportano la caduta del principio di autorità e lo sviluppo di emozioni sempre più improntate sulla vergogna e meno sulla colpa.
Cresciamo dei figli sicuramente più sensibili ed emotivamente capaci che in passato, ma come effetto collaterale li rendiamo così fragili da essere a volte senza pelle di fronte alle frustrazioni e incapaci di sentire, rispettare, avere un po’ di sano timore, perché no, dei rapporti verticali. Che nella vita esistono, servono, proteggono, contengono. Li amiamo e ci rispecchiamo in loro talmente tanto da non renderli poi in grado di disconfermare le nostre aspettative nella fase della vita in cui dovranno farlo, cioè durante l’adolescenza, quando i figli per statuto e come parte del processo evolutivo devono poter deludere le aspettative genitoriali.
Riflettendo su questi temi non posso non dedicare un pensiero ai gruppi WhatsApp dei genitori: a partire dalla scuola dell’infanzia i genitori sono in contatto diretto e potenzialmente costante tra loro e con la scuola,
il che può essere senz’altro una comodità per quanto riguarda la comunicazione scuola/famiglia, ma crea spesso molta confusione e sconfinamento di ruoli. Già dalla scuola dell’infanzia sento esperienze di messaggi invadenti e ingombranti, inviati a ogni ora del giorno e della sera, a commento di ogni scelta educativa e non; messaggi che non lasciano spazio a educatrici ed educatori di fare il loro lavoro, ma soprattutto ai bambini di fare la loro esperienza. A scuola. Da soli.
Quando si prosegue con il percorso, alla scuola primaria ma anche più avanti alle medie e alle superiori, i genitori discutono spesso tra loro dei compiti dei figli, si chiedono delucidazioni, si confrontano sul carico di lavoro, su come vadano eseguiti i compiti quando le consegne non sono chiare oppure non sono state riportate correttamente dai figli. Ma perché un bambino (e ancor più un ragazzo) non deve essere libero di capire male la consegna di un compito, svolgerlo in modo errato e farsi dire dall’insegnante che non ha capito bene come andava fatto?
Perché, con quale diritto, noi genitori vogliamo o pensiamo di poterci sostituire ai nostri figli nelle esperienze della vita e in particolare in quelle di possibili errori, frustrazioni, fallimenti che cerchiamo di annullare ed evitare come se fossero dannosi e nocivi? Nel mio lavoro mi capita spesso di osservare adolescenti che, pur lamentandosi duramente della mancanza di autonomia e dell’eccessivo controllo genitoriale, si “accomodano” nell’acquisito diritto di non scrivere correttamente i compiti sul diario e non prendersi la briga di controllare il registro elettronico, perché sanno che i genitori, spesso le mamme, chiederanno ad altri delucidazioni. Questo, oltre a deresponsabilizzare i ragazzi, rischia di creare un legame genitore-figlio che impedisce agli adolescenti di separarsi dai genitori dell’infanzia e iniziare il cammino verso la costruzione della loro identità.
Va aggiunto a ciò il fatto che, avendo costante accesso al registro elettronico, mamme e papà possono sapere tutto: quali argomenti vengono svolti a scuola, quali compiti ci sono, quando le verifiche, quali voti, quanti ritardi e quante assenze. Fino a un po’ di tempo fa i ragazzi erano liberi di “bigiare” la scuola, nascondere i voti, entrare un’ora dopo, correndo il rischio di pagarne le conseguenze (spesso non proprio piacevoli!). Ora non lo possono più fare. Scherzo con molti pazienti che seguo e con i loro genitori dicendo che forse i ragazzi, nativi digitali, dovrebbero trovare il modo di impedire l’accesso dei genitori al registro elettronico, cambiandone le password o inventandosi qualcosa di diverso. I genitori, le mamme soprattutto, sono il più delle volte d’accordo con me, ma non riescono a fare a meno di controllare. «Dottoressa, non ce la faccio, non c’è niente da fare, mi sembra di doverlo aiutare. Se non intervengo si schianta!».
Parlo soprattutto delle mamme perché mi capita con più frequenza di sentire che siano loro a occuparsi di questi aspetti, mentre molte volte i papà non hanno accesso al registro elettronico o non sono inseriti nei gruppi WhatsApp. Seguono una logica lineare che a mio avviso non viene abbastanza valorizzata e a volte liquidata come pigrizia e non voglia di intervenire: «Se non studia verrà bocciato e saranno affari suoi quando dovrà confrontarsi con noi. Forse schiantarsi lo aiuterà». Devo riconoscere, senza troppo generalizzare, che gli uomini sono tendenzialmente più competenti nel rispetto dei confini, nella leggerezza quando serve e in genere anche nel silenzio. Tuttavia, e aggiungo purtroppo, tendono frequentemente a stare un passo indietro e io mi chiedo perché non sia proprio l’istituzione scolastica a coinvolgerli maggiormente. Perché per anni, e a volte ancora ora, i gruppi WhatsApp dei genitori sono stati chiamati “gruppi delle mamme”? Di recente ho sentito una iniziativa interessante di un papà rappresentante di classe della figlia di alcuni amici: ha creato un gruppo in cui può scrivere solo lui, girando ai membri i messaggi delle maestre senza ulteriori commenti. Pare che funzioni bene e credo possa creare una comunicazione sobria e rispettosa dell’istituzione scolastica (…).
Fonte: Avvenire