di Assuntina Morresi
Un indiscutibile spartiacque che segna un prima e un dopo nella questione culturale, medica e quindi politica delle identità fluide: è l’annunciata chiusura, nella primavera 2023, della GIDS (Tavistock’s Gender Identity Development Service), la clinica londinese per l’identità di genere, della Tavistock & Portman NHS Foundation Trust, dedicata ai bambini e adolescenti con queste problematiche.
Nato nel 1989, e da allora unico nel Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito, è uno dei primi centri al mondo di questo tipo dedicato ai minori i quali, dall’anno prossimo, saranno indirizzati ad altri centri regionali britannici, per poter usufruire di «cure olistiche» e «forti collegamenti ai servizi di salute mentale». Motivazioni che rivelano le pesanti criticità della clinica, emerse da una indagine indipendente commissionata nel settembre 2020 dal governo a un gruppo di esperti guidato dalla pediatra Hilary Cass, già presidente del Royal College of Paediatrics and Child Health.
Al centro della polemica le transizioni dei minori affetti da disforia di genere, trattati nella GIDS secondo un approccio affermativo, cioè nella direzione di riconoscere il genere percepito e avviare alla transizione: per i ragazzini questo significa soprattutto il protocollo olandese, cioè bloccanti della pubertà intorno ai 12 anni, e poi ormoni cross sex ai 16 (ad esempio, testosterone alle ragazze) e infine, eventualmente, chirurgia demolitiva- ricostruttiva dai 18. In dieci anni il numero dei minori che si è rivolto alla GIDS è aumentato di 20 volte, passando da 250 a 5.000 nel 2021, in grande maggioranza ragazze, e con elevate percentuali con disturbi dello spettro autistico.
Nel rapporto ad interim pubblicato lo scorso marzo, la dottoressa Cass evidenziava la difficoltà della clinica a gestire le lunghissime liste di attesa, insieme alla mancanza di dati «di routine e coerenti» sui minori trattati; sono emerse pressioni sul personale sanitario perché adottasse un «approccio affermativo e indiscutibile», e anche la sottovalutazione di altri problemi di salute mentale quando ai pazienti veniva riconosciuto un disagio legato al genere: insomma, il modello GIDS «non è un’opzione sicura o praticabile a lungo termine».
La clinica era entrata per la prima volta al centro delle polemiche con Keira Bell, una de-transitioner che dopo aver seguito per intero il protocollo olandese – bloccanti a 16 anni, poi ormoni e chirurgia per transitare a maschio – a 24 anni ha capito di voler tornare al genere di nascita e ha intentato causa alla GIDS, contestando la carenza nel consenso informato sui trattamenti ricevuti per la transizione. L’Alta Corte le ha dato ragione con una sentenza parzialmente ribaltata, poi, dalla Corte d’Appello, che ha stabilito che sono i medici a dover giudicare le capacità di consentire ai trattamenti, per un minore, e quindi eventualmente a risponderne in sede giudiziaria: il contenzioso però ha acceso i fari sulle transizioni di genere degli adolescenti, mentre clamorose inchieste giornalistiche hanno fermato del tutto gli stessi trattamenti in Svezia, rivisti anche in Finlandia con una rivalutazione di quelli psicologici.
Anche al di là dell’oceano l’ideologia delle identità fluide inizia a mostrare le sue crepe: il ‘New York Times’ ci informa che in Argentina, dove l’autodeterminazione di genere è legge da dieci anni, il governo della capitale Buenos Aires ha proibito nelle scuole l’uso di un linguaggio neutro rispetto al genere, perché crea problemi di apprendimento. E in un allarmato editoriale del 14 luglio scorso, titolato «I Democratici devono svegliarsi e smetterla di assecondare i loro estremi», con connessa copertina nell’edizione americana, il settimanale ‘ Economist’ attacca certa «retorica democratica» dove «si sono insinuate idee marginali e a volte strampalate» fra cui quelle che «rinominano le donne come ‘persone che partoriscono’».
Di questi continui e sempre più frequenti segni di ripensamento sarebbe utile che anche nel nostro Paese si facesse tesoro.
Fonte: Avvenire