di Dorella Cianci

Caterina Fiorilli, docente di psicologia sociale alla Lumsa, interviene nel dibattito sugli adolescenti “ritirati”, segnale di un rifiuto che diventa disagio psichico. “Nè ignorare, né medicalizzare”

Giovani hikikomori italiani in preoccupante crescita. L’ha scritto qualche giorno fa Ilaria Beretta (vedi qui), sottolineando non solo come il fenomeno del ritiro sociale sia sempre più diffuso fra i giovanissimi, ma addirittura, d’estate, sia destinato pericolosamente ad aumentare. Evidentemente il mito estivo, col suo piacere e coi suoi svaghi, è anche un amplificatore di disagi, di isolamento, un momento in cui si accrescono le difficoltà nel rapporto col proprio corpo smascherato (ben più privo di abiti). Non solo. D’estate gli amici, partono per lunghi periodi, il dialogo è sempre più ridotto a conversazioni tramite chat e nella mente di alcuni, ci si prepara già all’ansia della ripresa scolastica o universitaria. La «vacanza», che come tradisce l’etimologia, è di per sé «vuoto», può diventare appunto un vuoto che non riesce a riempirsi di relax, di creatività, di svago o di risate in compagnia. Quei disagi già maturati nei mesi precedenti, e spesso rimasti invisibili ai genitori e agi educatori, possono essere aggravati dallo stop brusco delle attività quotidiane. Tutto era pieno e poi tutto diventa vacante.

Su questi temi proseguiamo la riflessione con Caterina Fiorilli, ordinario di psicologia sociale presso l’Università Lumsa di Roma, dove dirige anche il Dipartimento di Scienze Umane. Con lei stiamo cercando di fare il punto sulla complessa gestione delle emozioni da parte dei più giovani, a partire da piccoli disturbi di ansia sociale, fino al drammatico fenomeno del completo ritiro dalla realtà. Gli aspetti qui toccati sono molti e, come avverte l’esperta, c’è bisogno di studiare il fenomeno, c’è necessità di approcci integrati e, soprattutto, c’è bisogno anche di lasciar andare le aspettative su stessi, provando ad accogliere benevolmente anche i fallimenti.

Professoressa Fiorilli, di recente l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato i risultati di un’importante ricerca condotta su una popolazione appartenente alla cosiddetta “generazione Z”, concentrandosi sulla fascia adolescenziale minorenne, ovvero quella che va dagli 11 ai 17 anni. La ricerca ha come scopo primario quello di indagare quanto i giovanissimi siano affetti da dipendenze di tipo comportamentale, in particolare dipendenza da internet, da social e da cibo. Tuttavia affronta anche un’altra dimensione, ovvero la tendenza al ritiro sociale, e in particolare la questione hikikomori. Si tratta di una delle primissime ricerche condotte, a livello nazionale, che indaga il fenomeno del ritiro sociale volontario cronico giovanile. Il dibattito è acceso. Gli esperti non concordano sulle cause del confinarsi nell’ambito della propria casa. Lei come spiegherebbe questa grave problematica, che sembrerebbe, stando ai dati, accentuarsi d’estate? Internet è una conseguenza o la causa del comportamento patologico? La famiglia, in questi casi, è un rifugio o il principale problema dello stato di ansia sociale causato in alcuni?

Il fenomeno dell’hikikomori (quel ritiro volontario e prolungato dalla vita sociale) non è un capriccio adolescenziale né un effetto collaterale della tecnologia, sempre messa, anche in maniera impropria, sul banco degli imputati. È piuttosto una risposta complessa e spesso dolorosa a un mondo che chiede troppo e accoglie troppo poco. Secondo recenti studi le cause sono molteplici: tratti temperamentali, vissuti di ansia o depressione, famiglie iperprotettive o emotivamente assenti, e una società che tende a misurare il valore delle persone in termini di prestazioni. In questo scenario, Internet non è il colpevole principale, bensì spesso l’unico rifugio. Uno spazio virtuale che consente ai ragazzi isolati di mantenere un contatto minimo con il mondo, ma senza doversi esporre al dolore del confronto reale.

Quanto pesa l’atteggiamento delle famiglie?

È innegabile che la famiglia, da luogo di affetto, può trasformarsi in una trappola invisibile. In molte storie di hikikomori, si ritrovano genitori ansiosi, iper-presenti, pronti a evitare ai figli qualunque frustrazione. Ma un adolescente senza frustrazioni è come una pianta senza vento: cresce fragile, incapace di reggersi da sola. Le frustrazioni dovrebbero essere considerate parte integrante dell’educazione: non ostacoli da evitare, ma nutrimento quotidiano per la crescita interiore. Imparare, sin da piccoli, a confrontarsi con il limite, con l’attesa e con il fallimento significa esplorare il regno del possibile, dove si costruisce la resilienza. Al contrario, un’educazione che rimuove ogni sofferenza, che protegge da ogni inciampo, rischia di privare i ragazzi della possibilità di scoprire le proprie risorse, di sperimentare fiducia nelle proprie capacità e di affrontare con coraggio gli imprevisti della vita.

Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione “Minotauro” di Milano, da anni ormai si occupa del fenomeno degli hikikomori. Di recente ha scritto: «ll ritiro scolastico e sociale rappresenta, in qualche modo, l’equivalente maschile del disturbo della condotta alimentare femminile». Qual è il suo punto di vista? Ha senso farne un discorso di genere?

Il ritiro sociale colpisce soprattutto i maschi, in modo silenzioso ma devastante. Lo dico i dati. Se le ragazze, più spesso, esprimono il disagio attraverso il corpo, come nei disturbi alimentari, i ragazzi si ritirano. Non reagiscono: si spengono. È una “difesa passiva” che prende forma quando le aspettative esterne, scolastiche, familiari, sociali, diventano insostenibili. In una società che chiede ai maschi di essere forti, autonomi, vincenti, l’incapacità di rispondere a questo modello può provocare un vero e proprio cortocircuito identitario. E il silenzio, allora, diventa una forma estrema di resistenza. Anche su questo, noi adulti ed educatori possiamo fare molto. Ma prima dobbiamo porci una domanda sociologicamente urgente: cosa stiamo facendo, come società, per decostruire l’immagine dell’uomo forte, impermeabile, a volte persino aggressivo? Cosa accade a quei ragazzi che non si riconoscono in questo modello di mascolinità? Che non si sentono rappresentati né a casa, né a scuola, né nei messaggi culturali che ricevono? Molti di loro si chiudono. Si isolano. Perché, quando non trovi uno spazio in cui esistere con autenticità, l’unica via possibile sembra diventare l’invisibilità.

Ampliando il ragionamento anche alla fascia d’età relativa agli studenti universitari, potremmo dire che siamo davvero nel pieno delle cosiddette passioni tristi di una popolazione giovanile che non vede un futuro in cui sperare… A suo avviso, ritirarsi temporaneamente dalla realtà è un problema dell’io o è inquadrabile in alcune difficoltà delle relazioni?

Vorrei innanzitutto precisare, per evitare ogni fraintendimento, che non sono solo gli adolescenti a ritirarsi. Anche tra i giovani adulti, specie in ambito universitario, il fenomeno hikikomori sta crescendo. Lo raccontano i numeri, ma soprattutto le storie: vite sospese, progetti interrotti, futuri che non riescono a prendere forma. L’insicurezza lavorativa, la solitudine affettiva, le aspettative familiari troppo alte o troppo confuse lasciano molti ventenni in una sorta di limbo. Un “vuoto pieno” di ansia, dove ogni scelta sembra sbagliata e ogni tentativo rischioso. Quel vuoto che si amplifica d’estate, ma che, in alcuni, è un costante sintono di disagio, che resta fin troppo sottovalutato.

Abbiamo tolto i desideri ai più giovani? Nell’appagamento di ogni richiesta, i genitori non stanno rischiando di privare i figli di quel sacro spazio riservato ai sogni anche irrealizzabili, agli amori non corrisposti e agli esami non superati?

Abbiamo insegnato ai nostri figli che “volere è potere”. Ma spesso non gli abbiamo insegnato a tollerare il fallimento. E così, paradossalmente, il troppo può diventare troppo poco. In molte storie di ritiro sociale si ritrova un tema ricorrente: l’assenza di desiderio. Ragazzi che non vogliono nulla, che non inseguono sogni, che non protestano. Non per apatia, ma per paura. Paura di sbagliare, di deludere, di non essere all’altezza. Come osservavo, l’assenza di conflitto educativo, di limiti reali, può inibire la costruzione di un’identità stabile. E l’hikikomori diventa il sintomo di un Io che non ha potuto crescere nel confronto, anzi, che ha temuto il confronto perché rischioso, fonte di paure indicibili.

Tornando alla fascia d’età minorenne, come possono gli insegnanti inserirsi in questo complesso e articolato tema, dal momento che, fin dalla scuola media, si registra il fenomeno del ritiro sociale?

La scuola può essere il primo luogo dove il disagio si mostra, o si nasconde. Dietro a un’assenza ricorrente, al rifiuto delle verifiche, a un mutismo selettivo, può celarsi una richiesta d’aiuto.

Dunque la scuola ha un ruolo cruciale nel fenomeno dell’hikikomori. Formare insegnanti all’ascolto (facoltà difficilissima da allenare), dotare le scuole di strumenti di educazione emotiva e creare uno spazio sicuro dove sbagliare non sia una condanna, è fondamentale per restituire ai giovani la possibilità di sentirsi parte del mondo. Secondo lei, occorre un intervento sociale e condiviso o è più efficace affidarsi all’analisi specifica del singolo caso? In tal senso, alcuni sociologi e pedagogisti suggeriscono che il tema andrebbe anche abbinato all’analisi del disagio dei Neet.

Essere Neet, ossia non essere impegnati né nello studio, né nel lavoro, né nella formazione, e vivere da hikikomori, ritirati per lunghi periodi dalla vita sociale, non sono condizioni equivalenti. Il primo è uno status socio-occupazionale, il secondo una condizione psichica e relazionale più complessa. Ma i due fenomeni si intrecciano spesso, soprattutto tra i giovani adulti, dando vita a forme ibride di sospensione, isolamento e smarrimento. Quel che li accomuna è una frattura profonda: tra il giovane e le istituzioni educative, tra il desiderio di essere riconosciuti e la difficoltà, o l’impossibilità, di immaginarsi dentro a un futuro. Essere Neet non significa semplicemente “non fare nulla”: è spesso il risultato di una lunga serie di disillusioni, rifiuti, mancanze di orientamento. Ed è proprio qui che il legame il ritiro sociale si fa più stretto: in entrambi i casi, si tratta di un disinvestimento progressivo dal mondo esterno, vissuto come ostile, deludente o irrilevante. Ritirarsi, fisicamente o simbolicamente, non è solo un segno di fragilità psichica individuale, ma anche un grido sociale. È il segnale che qualcosa si è rotto nel patto tra le nuove generazioni e le strutture che dovrebbero sostenerle: la scuola, il lavoro, la comunità. Essere Neet o hikikomori, allora, non è solo “stare fuori” da un sistema. È anche, in modo implicito ma potente, una forma di protesta muta contro un mondo che non sa più accogliere la vulnerabilità né valorizzare la differenza. Una diagnosi, sì ma anche uno specchio sociale che ci interroga su cosa significhi oggi costruire futuro.

Come intervenire?

Con cura individuale e collettiva, con ascolto e con politiche concrete, che a partire dalle linee guida per gli insegnanti, non si dimentichino di vedere autenticamente chi è in aula. Le linee di intervento sono sempre multiple ed occorre prima partire da ciò che è più vicino al ragazzo o alla ragazza. Come dicono alcune popolazioni africane, l’acqua, per quanto efficace, non può spegnere un fuoco lontano. Curare un hikikomori non significa semplicemente “farlo uscire di casa”. Significa ricostruire una rete di fiducia: clinica, familiare, sociale. Dovremmo riflettere ancora su questo fenomeno tenendo ben a mente che l’hikikomori è un sintomo, ma anche un segnale, che ci parla di un malessere profondo non solo chi si ritira, ma di tutta la comunità. Tanto ignorarlo quanto medicalizzarlo in fretta è un errore.

Fonte: Avvenire