di Gigio Rancilio
Proteggere i minori nel digitale non è una corsa, ma una lunga maratona. Dobbiamo ricordarcelo l’un l’altro, noi adulti, noi genitori, noi educatori. Noi che abbiamo a cuore il bene dei nostri ragazzi. Altrimenti cadiamo nella trappola di pensare che basti vincere una partita perché tutto sia risolto e il problema sparisca.
Certo, il passo compiuto mercoledì dal social TikTok, che raccoglie tanti adolescenti e (purtroppo) illegalmente anche tanti minori di 13 anni, è grande e importante. Anche se arriva – è bene ricordarlo – non per scelta della piattaforma, ma dietro precisa richiesta del Garante privacy italiano e dopo la morte di una bambina di 10 anni a Palermo (sebbene, per ora, dall’inchiesta non siano emersi collegamenti tra la tragedia e il social).
Dunque, a partire dal 9 febbraio, «TikTok bloccherà tutti gli utenti italiani e chiederà loro di indicare di nuovo la data di nascita prima di continuare a utilizzarlo». Una volta identificato un utente al di sotto dei 13 anni, «il suo account verrà rimosso». La legge in vigore in Italia, infatti, vieta l’iscrizione dei minori di 13 anni ai social (ma anche a WhatsApp) mentre chi ha tra i 13 e i 14 anni può iscriversi solo con l’autorizzazione dei genitori.
Per scoprire «furbetti » e «trasgressori», TikTok «valuterà l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per la verifica dell’età». Attenzione alle parole: «valuterà» non «applicherà ». Cioè, sta ancora pensando come fare. Perché le stesse leggi che limitano l’accesso ai minori, prevedono anche tante altre limitazioni all’uso dei loro dati. Quindi, qualunque sistema che TikTok applicherà non potrà essere «invasivo».
Ma qui rischiamo di diventare troppo tecnici e di sbagliare l’obiettivo. Perché la maratona che abbiamo davanti non è «tecnica» o digitale, ma umana ed educativa. E chiama ognuno di noi a fare la propria parte. Perché possiamo prendercela finché vogliamo con le piattaforme social, ma la triste verità è che su TikTok ci sono anche tanti bambini i cui profili sono stati aperti dai genitori o che, addirittura, usano quelli della mamma o del papà «perché così non si sentono diversi dai loro compagni». Possiamo raccontarcela per ore, ma non c’è regola, non c’è legge, non c’è algoritmo o intelligenza artificiale che possa fermare questa deriva. Quello che possiamo e dobbiamo fare è caricarci sulle spalle la fatica di aiutarci a migliorare vicendevolmente. Senza urlare, senza demonizzare, senza scontrarsi in litigi social che lasciano ognuno convinto dell’idea che già aveva. Dobbiamo capire che, anche qui, non ci salviamo da soli. E che, soprattutto, i nostri figli non si salvano solo perché noi siamo più bravi o più competenti degli altri genitori. Serve un lavoro grande. Serve, come ha ricordato ieri Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, «una maggiore consapevolezza, da parte di adulti e minorenni». Ben venga quindi la decisione di TikTok di rendere privati i profili degli utenti tra i 13 e i 15 anni, di vietare l’uso dei messaggi diretti, la possibilità di fare dirette streaming e limitare chi può commentare i video dei ragazzi. Tra le novità c’è anche l’«Abbinamento Famigliare». Cioè, la possibilità di collegare l’account del genitore con quello del figlio minorenne (quindi, anche per la fascia 15-18 anni), così che l’adulto possa intervenire sulle impostazioni elencate sopra, definire i limiti al tempo passato online dai ragazzi e restringere la visualizzazione dei contenuti.
Inoltre, TikTok lancerà una campagna informativa per sensibilizzare genitori e figli. Da genitore mi permetto di dire che i primi a dovere essere sensibilizzati siamo noi adulti. Non per la solita storiella che i ragazzi sono nativi digitali e sanno tutto (cosa peraltro nemmeno così vera, visto che saper ‘smanettare’ su un cellulare non significa comprenderne i rischi) ma perché, ancora una volta, spetta a noi la fatica più grande. A noi che siamo già chiamati a farne ogni giorno tante altre. Non abbiamo alternative. Dobbiamo farlo. L’unica possibilità di riuscirci è di aiutarci a vicenda. Così che nessuno si senta solo o, nei casi peggiori, abbia l’alibi di dire «io non sapevo».
Fonte: Avvenire