di Marcello Ricciuti, da 15 anni direttore di un hospice. La vera libertà è da dolore e solitudine, non è la morte programmata
«Liberi fino alla fine» è lo slogan dei sostenitori della campagna referendaria finalizzata, in sostanza, alla legalizzazione dell’eutanasia. È uno slogan accattivante, chi non sarebbe d’accordo? Ma se, approfondendo un po’ la questione, si capisce che si tratta della libertà di dare la morte, o di darsela con l’aiuto altrui, e in particolare della medicina, allora penso che l’«accordo » non è più così scontato. Se vogliamo parlare un po’ del ‘fino alla fine’, allora questo è proprio il mio mestiere, o meglio, la mia professione, forse anche un po’ la mia missione.
Dirigo un hospice da oltre 15 anni, ricoveriamo oltre 200 pazienti l’anno e altre centinaia ne seguiamo, soprattutto oncologici, in quelle che sono oggi definite «cure palliative precoci ». L’obiettivo delle cure palliative, e degli hospice in particolare, è offrire cure proporzionate, senza accanimenti ma anche senza abbandoni, a persone con malattie inguaribili, quando le cure specialistiche non sono più efficaci e il controllo del dolore e degli altri sintomi, il supporto psicologico, sociale e spirituale del malato e della sua famiglia diventano essenziali per garantire la migliore qualità di vita, fino alla fine. È interessante, a mio avviso, far notare che nella nostra esperienza di migliaia di pazienti seguiti – naturalmente mi assumo la responsabilità di quel che dico – non abbiamo mai raccolto richieste vere e proprie di eutanasia o di suicidio assistito. Tranne in due casi, uno molto recente di una persona già pronta ad andare in Svizzera. In entrambi i casi un percorso accettato, non senza travaglio, di cure palliative e – nel caso della Svizzera – anche di ricovero in hospice, hanno fatto cambiare traiettoria alla scelta, da una morte anticipata a una morte accompagnata. «Da quando sono qua mi sento serena, sia mentalmente che fisicamente.