di Mariolina Ceriotti Migliarese

Con la ripresa scolastica, i genitori si affannano alla ricerca di proposte per tenere i figli impegnati dopo il tempo-scuola: corsi di lingue e di teatro, attività sportive e musicali, danza, informatica. L’offerta è amplissima, interessante, stimolante, e va incontro alla necessità dei genitori che lavorano: sapere che i loro figli non rimarranno a casa ad annoiarsi e che non si incolleranno al computer o ai videogiochi, con il rischio di diventare sempre più dipendenti da questi strumenti affascinanti e un po’ rischiosi. Credo però sia importante vigilare perché, in età infantile, tutte le attività mantengano per quanto possibile le caratteristiche creative del gioco.

Il dizionario definisce il gioco come un’attività che sviluppa piacere, e inizia già nel neonato, che è capace di intrattenersi piacevolmente con il proprio corpo (“gioca” con le sue mani e i suoi piedi) e con il corpo della mamma (esplorandole ad esempio il viso e i capelli). Dal gioco con il corpo il bambino passa a interessarsi di oggetti via via più complessi: non si tratta necessariamente di giocattoli ma di oggetti che gli permettono azioni come riempire, svuotare, costruire, distruggere, aprire, chiudere, esplorare. Quello che rende interessante l’attività non è tanto l’oggetto in sé quanto la possibilità di produrre un effetto attraverso la propria azione su di esso o attraverso di esso; il bambino cerca spontaneamente questo piacere di scoprire e sperimentare, tanto che potremmo definire il gioco come il modo naturale con cui un bambino sano avvicina il mondo. Anche nelle età successive il gioco spinge sempre ad agire sulla realtà per scoprirla e trasformarla con un apporto personale e creativo; in questo senso, l’essere umano può trasformare in gioco tutte le attività che svolge, semplici o complesse che siano.
Dobbiamo però aggiungere alla definizione un’altra caratteristica: il gioco è tale se non ha come primo obiettivo un utile o un risultato prestazionale; il tempo del gioco è un tempo di libertà e di gratuità. Inoltre, il gioco sano è divertente ma non troppo eccitante, perché lascia tra il soggetto e l’oggetto una distanza “giusta”, che permette di non venire mai assorbiti in modo totale da ciò che si fa.

Nella vita dei bambini di oggi la dimensione vera del gioco è molto carente. In primo luogo, perché le attività che proponiamo sono spesso mirate più ad acquisire abilità che a favorire in modo gioioso l’esperienza; in secondo luogo, perché molti giochi consentono un ristretto margine di creatività e inducono un eccesso di eccitazione. I videogiochi, soprattutto, hanno queste caratteristiche.

Per consentire creatività, l’oggetto deve prevedere uno spazio sufficiente di non-definizione, mentre i videogiochi rendono i nostri figli soprattutto abili esecutori: i bambini sanno far funzionare strumenti molto complessi, ma hanno perso il gusto di usare in modo fantasioso gli oggetti.

Inoltre, il videogioco induce nel giocatore un notevole stato di tensione, molto difficile da smaltire. È questo il motivo per cui tutti i genitori sentono la necessità di contingentare il tempo in cui un bambino usa i videogiochi, mentre non penserebbero mai di contingentare quello in cui gioca al pallone o a giochi di fantasia: intuitivamente sappiamo infatti che il videogioco eccita senza arricchire, a differenza del gioco “vero”, nel quale l’apparente “perdita di tempo” non è mai in realtà un tempo perso.

Fonte: Avvenire