di Luciano Moia

Come aiutare in ambito educativo le persone che si sentono «transgender»

Sono finora 189 gli istituti superiori e 41 le università ad aver attivato in Italia la cosiddetta “carriera alias”, il patto di riservatezza che, grazie a un regolamento di istituto, permette agli studenti transgender di essere riconosciuti con un nome diverso rispetto a quello assegnato alla nascita. Una scelta opportuna? Il dibattito è esploso da un paio di mesi. Può essere che i dirigenti di queste 230 istituzioni scolastiche e universitarie, in cui studiano un paio di milioni di ragazzi e ragazze grazie all’impegno di migliaia di insegnanti, stiano prendendo tutti insieme un gigantesco abbaglio? I motivi della decisione sono noti, e in genere caratterizzati da delicata discrezione. Riconoscendo le diversità e cercando di offrire a questi ragazzi e ragazze la possibilità di evitare discriminazioni, episodi di bullismo, rischi di dispersione scolastica e altri soprusi, scuole e università di cui sopra ammettono che l’«incongruenza di genere» è un problema serio, a cui gli insegnanti in sintonia con le famiglie devono guardare con attenzione e offrire tutto l’aiuto possibile per accompagnare gli studenti più fragili in modo solidale e consapevole.

[…] il vero problema non è la “carriera alias”, ma il disagio profondo di alcune migliaia di studenti e di universitari alle prese con una sessualità biologica che, secondo quanto loro dichiarano di sentire, non corrisponde a quella interiore, psicologica.

I genitori, gli insegnanti e gli educatori devono decidere come stare accanto a questi ragazzi. Se si sceglie la strada dello scontro totale, come stanno facendo, ciascuna dalle proprie posizioni, alcune delle associazioni citate, gli unici a pagarne le conseguenze saranno i ragazzi e le ragazze transgender o che tali si sentono e che per questo soffrono. E finiremo per lasciare andare alla deriva un pezzo di una generazione in cui le difficoltà legate all’identità personale, sessuale, di ruolo e di genere, sono più diffuse di quanto ci si immagini e sono il termometro di un malessere che finisce sempre più spesso per diventare problema di salute mentale. Dal 2018 l’Oms ha declassato questo disagio, prima noto come «disforia di genere », inserito nel novero delle patologie mentali. Ora viene definito «incongruenza di genere», cioè variante non patologica della sessualità umana. Al di là della battaglia lessicale, è fuori di dubbio che adolescenti e giovani, ma anche adulti, alle prese con le difficoltà psicologiche legate al genere, vivano momenti di profonda sofferenza che non si possono minimizzare o trascurare. Ascoltare i loro racconti e soprattutto raccogliere le testimonianze accorate dei genitori che vagano da un presunto esperto all’altro in cerca di aiuto e di conforto, suscita un’amarezza e una comprensione profonda della delicatezza e della non pretestuosità di questa realtà.

Come aiutare quindi queste persone? Qui il nodo si fa più intricato. Nessuno può negare che l’incongruenza di genere sia una grande sfida per la medicina perché, se l’eziologia del problema (probabilmente un intreccio per ora inestricabile di fattori genetici, ormonali, biologici, culturali e ambientali) rimane un’ipotesi, anche la terapia è tutt’altro che assodata. Basta l’accompagnamento psicologico? Anche qui le opinioni sono discordi. Giusto, nei casi più estremi, ricorrere agli interventi ormonali? Certamente non nei bambini o negli adolescenti, anche perché le statistiche ci dicono con sufficiente certezza che, nella maggior parte dei casi, il problema, quando ben identificato e contenuto, può rientrare (la percentuale di desistenza va dal 66,7% al 93,3% in base ai diversi studi, T.D.Steensa, 2015, K.J.Zucker, 2018).

Negli ultimi decenni sono stati certamente commessi molti errori. Diagnosi affrettate e interventi precoci, soprattutto nei Paesi anglosassoni e del Nord Europa, hanno causato danni talvolta irreparabili, tanto da determinare svolte importanti all’insegna della prudenza, sia in Inghilterra sia in Svezia, i Paesi che più si erano spinti in avanti nell’interventismo terapeutico. Scelta che si è rivelata gravissima e devastante per migliaia di minori. 

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