di Marco Erba, insegnante e scrittore
Alla luce del femminicidio della studentessa padovana, ecco alcune storie di ordinaria e minima violenza raccolte tra i banchi di scuola. Parole (e non solo) che possono condurre al peggio
«Prof, il mio ragazzo mi controlla il cellulare». «Non è una bella cosa, Viviana». «Lo so. Ma lui è fatto così. Non vuole neanche che io esca da sola con i miei amici». «Non va bene, Viviana. Stai attenta». «Prof, ma io sono persa per lui. Credo sia la prima persona di cui sono veramente innamorata in tutta la mia vita. E siccome anche lui è innamorato di me, è geloso. La gelosia è una parte essenziale dell’amore». Ripensai alle parole di una dottoressa da sempre in prima fila per combattere la violenza contro le donne: «La gelosia non è una parte dell’amore, Viviana. La gelosia è l’opposto dell’amore». «Prof, che le devo dire? Io sono così innamorata che da lui accetterei di tutto. Spero che non mi faccia mai del male. Ma lo amo così tanto che penso che lo perdonerei».
Questo agghiacciante discorso non è stato purtroppo l’unico nei miei anni da prof. Un giorno, al parco, incrociai Anita con un gruppo di amici e il suo fidanzato. Lei camminava avanti di qualche passo. Lui cercò di richiamare la sua attenzione così: «Troia! Oh, troia!». Anita si voltò tranquilla, gli occhi illuminati dall’affetto: «Dimmi, amore». Il giorno dopo, all’intervallo, chiacchierando con Anita, le feci notare che la scena a cui avevo assistito non denotava un grande rispetto del suo amore nei suoi confronti. Anita rispose: «Prof, che le devo dire? Lui è fatto così. È uno impulsivo. Pensi che sabato sera stava per picchiare uno solo perché all’ingresso di un locale mi guardava. “La mia tipa è solo mia, tu neanche ti devi permettere di alzare lo sguardo su di lei”, gli ha urlato. Io ero un po’ spaventata, ma anche orgogliosa che lui ci tenesse così tanto a me».
Un’altra volta ancora Giovanna, un’allieva di seconda superiore che per me era come una figlia, venne a parlarmi di un ragazzo di quarta con cui si era appena fidanzata. Capivo che voleva dirmi qualcosa in particolare, ma era imbarazzata. Alla fine, con uno sforzo, ci riuscì: «Prof, lui vuole fare l’amore con me. Secondo lei devo accettare?». Sprofondai in un imbarazzo peggiore del suo. Le risposi con una nuova domanda: «Tu desideri farlo?». «No, prof. Io non l’ho mai fatto. Non mi sento ancora pronta». «Ti sei già data la risposta da sola, Giovanna», le dissi.
«Eh, prof, ma lui mi dice che se non accetto di fare l’amore con lui è perché non lo amo abbastanza. Mi dice che quella della sua classe con cui stava prima di me faceva l’amore con lui, perché lo amava. E dice che lui la ha lasciata per me, perché mi ama più di quanto amasse lei. Dice che, se lo amo davvero, glielo devo dimostrare facendo l’amore con lui, come quella con cui stava prima di me faceva l’amore con lui. Io lo amo, prof, ma non me la sento. Cosa devo fare?».
Quante volte Giovanna aveva usato il verbo amare o la parola amore in ciò che aveva detto? Avevo perso il conto. Ma le feci immediatamente notare che in tutta quella situazione, in tutte le pretese del suo ragazzo, di amore non c’era proprio nulla. C’erano vittimismo, colpevolizzazione, ricatto: tutte subdole forme di violenza.
Concludo questa triste carrellata con il dialogo con Manuela, di terza superiore. «Prof, lei crede nel perdono?». «Certo, assolutamente». «Allora devo perdonare proprio tutto al mio ragazzo?». Silenzio intimorito da parte mia. «Perché sa, sabato è andato in discoteca con i suoi amici e ha baciato una ragazza». «Ah». «E tre settimane fa aveva già fatto lo stesso e io lo avevo già perdonato». «Ah». «Quindi, prof? Secondo lei cosa devo fare?». «Se riesci a perdonarlo, hai tutta la mia stima».
Manuela sembrava sollevata: «Ok. Dunque secondo lei devo comunque restarci insieme». «No, Manu, non intendo questo. Se riesci a non odiarlo, a rinunciare a ogni tipo di vedetta, hai tutta la mia stima. Ma starci insieme, mantenere un rapporto con lui, è un’altra cosa. Credi che lui ti stia rispettando? Lo ritieni una persona affidabile?». «No, prof. Il rispetto è zero e dell’affidabilità meglio non parlarne. Ma io sono innamorata di lui. Non voglio perderlo per nessuna ragione, anche se mi ha fatto malissimo. Non so proprio come comportarmi».
In questi giorni terribili, dove la cronaca ci ha sbattuto brutalmente in faccia il punto a cui può arrivare la violenza in una relazione, ho ripensato ai volti di Viviana, Anita, Giovanna e Manuela. Gli autori di femminicidi vengono sempre rinchiusi dentro definizioni perentorie, titoli senza appello: mostro, bestia, animale. Oppure si ricorre a immagini che richiamano dottor Jekyll e mister Hyde: «Sembrava un bravo ragazzo, un ragazzo tranquillo, e invece…». Come se quella persona fosse il ricettacolo del male, male che riusciva a nascondere bene dietro all’apparenza.
Tutto questo può risultare persino comprensibile: definire mostro una persona che ha compiuto un crimine orrendo ci è utile per prenderne le distanze, per allontanarlo dai noi, che ci sentiamo parte di una presunta normalità. È un processo che ci tranquillizza, che ci fa pensare che noi e le persone a noi care non potrebbero mai compiere nulla del genere: noi non siamo mostri, siamo gente perbene, pur con tutti i nostri limiti. Che semplificazione!
Nelle storie di Viviana, Anita, Giovanna e Manuela, storie comuni incontrate tra i banchi di scuola non negli anni Venti del Novecento, ma dopo il 2015, già si nasconde il seme della violenza. Un seme che può essere accanto a noi, dentro di noi. La mostrificazione del reo serve a ben poco: serve invece un grande progetto di educazione all’affettività che non si fermi alla sessualità, ma educhi alla relazione autentica con l’altro, alla cura, al rispetto. Un progetto che curi l’enorme piaga dell’analfabetismo affettivo, che metta al centro la definizione di amore.
Cos’è l’amore? Cosa significa dire a una persona “ti voglio bene”? Se “ti voglio bene”, significa “mi fai stare bene”, la radice tossica del possesso è già presente. Se l’altro è importante per me perché mi regala benessere, significa che al centro ci sono io. Che quella relazione sarà basata su una forma subdola di egoismo. In una relazione così, il seme della violenza rischia di insinuarsi: se ciò che conta è che mi fai stare bene, tu devi continuare a farlo. Tu sei mia e di nessun altro. L’amore possesso rende l’altro un oggetto al servizio del mio piacere, della mia felicità. Un oggetto che posso controllare, un oggetto che deve rispondere ai miei bisogni.
Ma l’amore non è mai possesso. Chi ama davvero, quando dice “ti voglio bene”, non intende “mi fai stare bene”, ma intende “voglio il tuo bene.” Se ti amo davvero, voglio che tu sia felice, perché al centro ci sei tu, non ci sono io. Perché l’amore è dono. Se ti amo davvero, voglio che tu sia ciò che vuoi tu, non che tu sia ciò che voglio io. Più l’amore è grande, più è liberante. Più l’amore è grande, più lascia che l’altro sia ciò che desidera essere. E se l’altro desidera che la sua vita sia lontana da me, sia senza di me, se io lo amo davvero, lo lascerò andare.
Lo racconta benissimo un film del 2003, Una settimana da Dio, interpretato, tra gli altri, da Morgan Freeman nel ruolo di Dio e da Jim Carrey nel ruolo di Bruce Nolan, un giornalista che riceve da Dio tutti i suoi poteri. Bruce diventa onnipotente: può apire in due una zuppa al pomodoro come Dio aveva separato il mar Rosso, può camminare sulle acque come Gesù nei Vangeli, può addirittura spostare la Luna, avvicinandola alla Terra in occasione di una serata romantica. Ma quando Grace (Jennifer Aniston), la sua fidanzata, lo lascia e lui prova ad attirarla di nuovo a sé ordinandole di amarlo, si rende contro di essere impotente: Grace tira dritto e se ne va. Bruce protesta con Dio: se non può obbligare la sua ragazza ad amarlo, Dio non lo ha reso davvero onnipotente come lui, lo ha preso in giro.
Dio però lo spiazza. Gli risponde che nessuno può obbligare un altro essere umano ad amarlo, nemmeno Dio stesso. Perché il criterio supremo dell’amore non è la passione. Il criterio supremo dell’amore è la libertà.
Fonte: Avvenire