di Paola Ricci Sindoni
Fra i molteplici e preziosi spunti di riflessione e di approfondimento che propone la Dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede “Dignitas infinita circa la dignità umana” spicca un concetto, la “dignità ontologica”, che solo apparentemente si presenta come un paradigma astratto, fungendo invece da ponte concettuale tra il suo statuto formale e la sua efficacia pratica.
Innanzitutto, va notato come queste pagine non siano indirizzate soltanto ai credenti ma si aprano a un confronto razionale, valido per tutti quanti hanno a cuore il valore inestimabile di ogni vita umana. La dignità ontologica, infatti, segnala la preziosità dell’essere umano in senso universale, semplicemente in virtù del fatto che “è” un essere umano. Detto altrimenti, ogni uomo è autonomo e dotato di dignità perché è uomo, non è uomo perché dotato di dignità. È l’uomo, insomma, che possiede uno spessore ontologico che gli permette di esprimere la sua libertà, non è quest’ultima a determinarne la dignità.
La dignità non è conferita o creata da scelte autonome e personali ma “si impone” a esse, o meglio, dovrebbe esserne a fondamento. Il carattere eminentemente soggettivo della dignità ontologica, che marca l’unicità e la non scambiabilità di un uomo con un altro diventa in tal senso la piattaforma della sua vocazione universale, che richiede – come recitano anche le varie Dichiarazioni dei diritti umani – di essere potenziata e promossa attraverso l’esercizio del rispetto e delle pratiche etiche improntate da spirito solidaristico. Un conto è questo patrimonio ontologico, costitutivo dell’uomo in quanto uomo, un conto è la curvatura in senso soggettivistico assai presente nel dibattito pubblico, che tende a interpretare la dignità in chiave di diritto legato alla scelta della vita del soggetto.
Anche se molte volte esibita come appello formale e retorico, la dignità non manca ancora di suscitare interesse per il suo denso significato simbolico, per l’ampio spettro di valori che è in grado di attrarre, spesso però senza far riferimento a quel valore fondativo che ne giustifichi – come opportunamente indica questa Dichiarazione – la sua declinazione morale, sociale ed esistenziale, tale da vedere ogni vita umana unica, non interscambiabile, non commercializzabile.
Può dirsi allora che la dignità umana, lungi dal costituirsi come un valore accanto ad altri, o una qualità che inerisce all’esistenza secondo libertà, prende forma di una base originaria, volta a fondare criticamente quell’ampio ventaglio dei diritti, come di sostanziare la pratica etica di salvaguardia del rispetto di sé e di quello degli altri. Nonostante la condivisione di massima sull’indispensabilità di questo valore, la dignità umana rivela però tutto il suo carattere ambiguo, dal momento che di fatto viene speso in direzioni diverse e con risultati di segno opposto: talora “dignità” significa espansione di tutte le potenzialità del soggetto e della sua disponibilità a far propri valori diversi, come il corpo, la salute, la vita, le modalità del morire. Qui l’argomentazione fa leva sull’implicazione del rispetto della propria dignità personale nelle decisioni relative alla propria salute che – si dice – inerisce alla singola persona, la quale esige che ciascuno possa condurre la propria esistenza in libertà, misurandosi soltanto con il destino personale. Proprio in nome di questa ambivalenza alcuni studiosi, come Macklin e Kaufmann, ne dichiarano l’inutilità, considerandola come un guscio vuoto che si presta a essere riempito da contenuti valoriali diversi, dando così spazio a una visione privatistica della vita.
Fra i tanti meriti del documento vaticano, c’è quello di ribadire come la dignità umana debba condividere, come molti altri diritti fondamentali, un destino universale che le consenta di essere compresa non nel suo astratto isolamento ma all’interno di una “costellazione” di valori che si sostengono e si definiscono a vicenda. Ancora meglio: questo approfondimento antropologico ha il pregio di evitare la deriva relativistica dell’etica, secondo cui i diversi princìpi – a seconda della prospettiva scelta – vengono posti sul piano di parità e affidati alla percezione individuale che attribuisce il peso di ciascun principio, calandolo di volta in volta sui singoli casi. La dignità umana al contrario conserva una coerenza “originaria”, che si ritrova cioè all’origine del costituirsi dell’essere di tutte le persone, garantendo loro il carattere intoccabile della propria identità.
Quest’ultima guadagna stima e rispetto di sé solo in ragione e nei confini propri della dignità umana, che esige il rifiuto di essere fatta strumento per scopi differenti da quelli che salvaguardino e custodiscano ogni esistenza in vita. Per finire: il tessuto semantico della parola “dignità” rivela una sua possibile derivazione filologica dal termine latino de-igne (ignis, fuoco, luce) e designa tutto quanto è relativo al fuoco, inteso come fonte di calore e di illuminazione. Un altro modo simbolicamente denso per dire che la dignità umana, stoffa antropologica che ci distingue, non è un valore fra gli altri ma ciò che “viene da” (de-igne): da una fonte originaria, che deve assumere la struttura di un debito e di una responsabilità.
Fonte: Avvenire
Il testo
Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede “Dignitas infinita circa la dignità umana”
Articoli correlati
Ecco l’elenco delle “gravi violazioni” della dignità umana, di Andrea Tornielli, Vatican News
Dignitas infinita. Un commento, di Antonio Autiero
Maternità surrogata. Anche le forme altruistiche ignorano la dignità dei bambini, di Adriano Bordignon, Avvenire