di Giuseppe Ragogna
Un mese si è prolungato per dieci anni. Un’esperienza breve, in terre povere di missione, ha lasciato il segno nella vita di due coniugi. È la storia di Roberto Filippi e Deborah Salotto, di San Quirino. Hanno rinunciato a tutto per immergersi nei problemi delle periferie di Lima, tra le sofferenze di chi vive di stenti. Il Perù è un Paese tormentato da profonde disuguaglianze, con tassi di povertà elevati che lacerano il tessuto sociale. Com’è maturata la decisione? Loro preferiscono parlare di una “conversione” maturata lungo un cammino di crescita spirituale di coppia: “Basta dichiararsi cristiani per esserlo davvero? Noi lo eravamo di nome, ma non di fatto, perché non bastano le parole, servono i frutti. Atti coerenti con il messaggio evangelico”. Erano in crisi. La frequentazione della Comunità missionaria di Villareggia, a Pordenone, ha determinato la svolta. “Non è accaduto niente di clamoroso – sostengono – se non il compimento di alcuni passi decisivi verso i fratelli in difficoltà, fino all’incontro con loro, perché l’evangelizzazione è legata alla promozione umana. Non solo fede, ma anche opere. La comprensione del Vangelo non può lasciarci indifferenti”.
Nel 2008 hanno avuto l’opportunità di fare un’esperienza di volontariato nelle favelas di Lima. L’accordo si limitava a un mesetto intenso di lavoro. Poi, invece, i contatti diretti con quelle realtà di miseria hanno allungato la loro permanenza: “Troppe povertà per voltarsi dall’altra parte, troppe sofferenze scaricate sui bambini. Così dieci anni sono trascorsi in un baleno”. La vita è cambiata. A San Quirino hanno lasciato gli affetti più cari e il lavoro fisso. La casa di proprietà è stata data in affitto. Diciamolo. Una scelta un po’ pazza, se misurata con il metro della sicurezza economica. “Probabilmente, hanno preso una botta in testa”, commentavano le persone più vicine alla coppia. Deborah ride e ammette: “I nostri genitori sono stati bravi. Non erano entusiasti, ma hanno rispettato la scelta. Gli amici ci facevano notare la nostra pazzia, ma vedendoci felici ci hanno sempre dato una mano”. La serenità si raggiunge con l’equilibrio interiore.
All’inizio il cammino è stato impegnativo: la lingua da imparare, il contatto con culture e tradizioni molto diverse, la mancanza di comodità e di sicurezze, un tessuto di relazioni da approntare. Gli stranieri eravamo noi. “Ci sentivamo piccoli – ammette Roberto – dentro un’esperienza più grande di noi. Ma abbiamo sempre avuto il sostegno della nostra Comunità. Non restava che darsi una mossa. La miseria ci ha sollecitato il pronto risveglio attraverso continui pugni allo stomaco: tanta gente costretta a vivere nelle baracche, senza luce né acqua potabile; l’istruzione di basso livello e comunque a pagamento; il lavoro scarso e precario; una rete sanitaria con pochi posti-letto, costosa e non accessibile a tutti; i soliti problemi provocati da profonde disuguaglianze, con tanti poveri che soccombono sotto i colpi delle ingiustizie sociali. Non ci sono confronti rispetto alle nostre situazioni più gravi. E poi per noi i diritti umani hanno un valore universale, non reggono i confini. Siamo figli di uno stesso Padre”.
Roberto si è dedicato subito ai lavori di manutenzione delle varie strutture: centro professionale, asili, cucine popolari, poliambulatorio medico. Il raggio d’azione della parrocchia di riferimento coinvolgeva più di 120 mila persone. Dopo i primi passi, ha coordinato le attività del panificio avviato dalla Comivis (l’onlus della Comunità di Villaregia) che dava l’opportunità a numerosi giovani di imparare un mestiere. Deborah ha invece messo in pratica l’esperienza che aveva maturato come coordinatrice di una casa di riposo nell’area pordenonese. Si occupava di organizzazione dei servizi sanitari. “La sfida più grande – spiega – era di non cadere nell’assistenzialismo, che fa male a chi invoca aiuto. Una strategia equilibrata permette di gestire l’emergenza con ciò che si ha a disposizione, poi però la persona va accompagnata facendole comprendere la necessità di valorizzare le potenzialità proprie e della famiglia”. L’obiettivo è lo stesso di tante altre missioni nelle terre di povertà: dare la canna da pesca a chi ha bisogno, spingendosi fino all’insegnamento di come pescare, poi ognuno deve maturare la propria autodeterminazione.
La permanenza di dieci anni in Perù ha maturato il colpo di scena finale: “Che dire? Come figli – spiegano – avevamo anche una responsabilità verso i nostri genitori. Gli anni passano. Va bene un po’ di pazzia, ma poi subentrano i calcoli dettati dalla ragionevolezza. L’idea era di tornare a San Quirino in età valida per un inserimento lavorativo. Proprio nei primi mesi del 2018 la casa, che avevamo affittato per poter pagare il mutuo, si liberava. Inoltre, c’era la consapevolezza che i progetti potessero continuare con l’impegno della popolazione locale. Era il via libera per il rientro in Italia senza particolari crisi di coscienza”. E così Roberto e Deborah sono ritornati, non da soli, ma con due fratellini peruviani. “Già prima della partenza per Lima, avevamo appreso che non potevamo avere figli. Dopo un periodo di sofferenza – confida Deborah – abbiamo pensato all’adozione. Secondo la nostra fede, Dio ha confezionato per noi l’intero pacchetto peruviano, compreso il “regalo” di due bambini splendidi. Avevamo la residenza a Lima che ci permetteva di accedere all’adozione nazionale con pratiche molto più semplici. Così abbiamo colto l’opportunità. Ora i piccoli si sono già inseriti bene in famiglia e a scuola”.
A San Quirino la solidarietà ha premiato anche i due coniugi. Roberto è rientrato al lavoro che aveva lasciato, mentre Deborah ha scelto di fare la mamma a tempo pieno Per la sistemazione della casa hanno ricevuto l’aiuto di parenti e amici. Ciò che non cambia è lo spirito rivolto al Prossimo. “Noi siamo impegnati – annunciano così la loro continuità di volontariato – nella costruzione del diritto universale alla dignità umana, qui e altrove”.
Fonte: Il Popolo, settimanale della Diocesi di Concordia-Pordenone