A Londra arriva uno stop definitivo alla riforma del Gender Recognition Act. Veniva chiesto di ammettere il cosiddetto ‘self-id’ o autocertificazione di genere

È un mantra: “Ce lo chiede l’Europa”. Ammessa e non concessa l’infallibilità europea, la storia è sempre quella: l’Italia è al Medioevo, è l’Europa a indicarci invariabilmente la strada per l’emancipazione e il progresso. Vale a maggior ragione per la legge sull’omobitransfobia (con le sue ancelle d’occasione, Misoginia e Abilismo) recentemente approvata alla Camera: ogni obiezione costruttiva, ogni argomentazione critica deve fermarsi di fronte al fatto che “ce lo chiede l’Europa”. La Gran Bretagna non è più Europa unita, d’accordo. Resta pur sempre una realtà interessante quando si affrontano certi temi. Nazione tenacemente omofoba – l’omosessualità è stata perseguita penalmente come gross indecency fino a qualche decennio fa e c’è voluta una legge, la Turing del 2017, per la riabilitazione postuma di migliaia di condannati – negli ultimi anni la Gran Bretagna è stata il laboratorio di punta delle queer e gender policy. Un effetto- rimbalzo.

Quello che capita lì su queste faccende è significativo. E negli ultimi tempi sono capitate un paio di cose che potrebbero avere importanti riflessi anche sul dibattito italiano in vista del passaggio della legge Zan al Senato. La prima: il definitivo stop alla riforma del Gender Recognition Act. La riforma chiedeva di ammettere il cosiddetto self-id o autocertificazione di genere: in parole povere la possibilità per chiunque di decidere in totale libertà a quale genere appartenere, a prescindere dal proprio sesso biologico e senza alcun atto medico, diagnosi, perizia o sentenza. Il governo britannico ha recentemente ribadito che il Gender Recognition Act va benissimo così com’è, quindi che la transizione deve continuare a essere accompagnata e certificata da esperti. Di self-id, al quale un recente sondaggio di “The Times” vede contrario il 94 per cento dei britannici, non si parlerà più. Una nota transwoman inglese, la giornalista Debbie Hayton, ha commentato positivamente la decisione scrivendo su “The Spectator” che «aver cestinato il self-id è una vittoria per le donne transgender… Il self-id sarebbe stata una porta aperta per ogni maschio violento intenzionato ad accedere senza restrizioni agli spazi femminili. In Gran Bretagna i diritti delle persone trans non sono mai stati garantiti come oggi».

La seconda novità non è meno rilevante, anche per il dibattito italiano. Alla fine di settembre il Dipartimento inglese per l’Educazione ha definitivamente bandito dalle scuole statali ogni formazione sulla cosiddetta identità di genere. Si è riconosciuto infatti che quella formazione, oltre a rafforzare anziché demolire gli stereotipi di genere, è pericolosa per i minori. Le nuove linee guida stabiliscono che «non si possono rafforzare dannosi stereotipi di genere per esempio suggerendo che i bambini potrebbero appartenere a un genere diverso basandosi sulla loro personalità, sui loro interessi, sui vestiti che preferiscono indossare». «I materiali utilizzati per la formazione su questi temi – si dice ancora nelle nuove linee guida – devono essere adeguati all’età degli studenti e basati su chiare evidenze. Non devono essere utilizzati materiali che suggeriscono che la nonconformità agli stereotipi di genere è sinonimo di una diversa identità di genere, e non si deve ricorrere ad agenzie di formazione esterne o a organizzazioni che producono questo tipo di materiali. Gli insegnanti non devono far credere a un bambino che la non conformità agli stereotipi di genere significa che la sua personalità o il suo corpo sono sbagliati, e hanno bisogno di un cambiamento».

Un duro colpo per associazioni come Mermaids (Sirene) –supportata perfino dal principe Harry e destinataria di cospicue donazioni come quella di Starbucks – che da anni organizza corsi nelle scuole britanniche a supporto dei cosiddetti bambini gender-variant e della libera identità di genere. A scuola si dovranno invece organizzare corsi di educazione relazionale, di educazione sessuale (solo nelle scuole secondarie) e di educazione alla salute. La netta sterzata del governo inglese testimonia la diffusa preoccupazione per una vera e propria epidemia di transizioni tra i minori che sono passate dalle 40 per le femmine (FtM) e 57 per i maschi (MtF) nel biennio 2009-10 alle 1.806 per le femmine (FtM) e 713 per i maschi (MtF) nel biennio 2017-18. Caso emblematico quella della giovanissima Keira Bell, sottoposta a trattamento con bloccanti ormonali dopo una frettolosa diagnosi di disforia da parte della Tavistock Clinic di Londra. Il trattamento a base di triptorelina, vale la pena di ricordarlo, è stato autorizzato anche in Italia dal Comitato nazionale per la Bioetica (unico voto contrario quello di Assuntina Morresi). Negli anni successivi Keira Bell è stata trattata con ormoni maschili e sottoposta a doppia mastectomia. Oggi, pentita, con la barba, senza seno, probabilmente resa sterile, ha intrapreso un’azione legale contro il Servizio sanitario: la sentenza è attesa a giorni. Keira è la principale testimonial dei giovani detransitioner, fenomeno esteso al punto da dare lavoro a nuovi studi legali specializzati nell’assistenza dagli exbambini transizionati e pentiti nelle cause contro il sistema sanitario (che rischia di dover erogare mega-risarcimenti).

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