di Mariolina Ceriotti Migliarese

La parola “aggressività” è una parola complessa come l’emozione che la sottende. Se la prima connotazione ci appare esclusivamente negativa, la radice etimologica ne sottolinea invece una valenza potenzialmente positiva; ad-gredior significa vado in avanti, avanzo, e fa perciò riferimento a una forza che implica dinamismo e autoaffermazione, e che mette l’Io in condizione di andare al di là degli ostacoli. Nella vita infantile la pulsione aggressiva fisiologica sostiene in primo luogo il desiderio di uscire dalla fusione simbiotica originaria per costruire la propria identità; l’identità richiede infatti la definizione di propri “confini”, perché essere se stessi significa non essere come l’altro, e avere pensieri e desideri di cui sentiamo la piena proprietà. Un esempio chiaro di questo passaggio sono le parole-chiave del bambino tra i due e i tre anni, snodo cruciale nel percorso identitario: queste parole (“io/no/mio”) vengono utilizzate in modo marcatamente auto-affermativo e non di rado aggressivo, che ben esprime la necessità di affermare la propria nascente volontà e la propria differenza.

Nella vita adulta, ciò che stimola l’aggressività è sempre la percezione (giusta o sbagliata) che qualcuno abbia violato il nostro territorio fisico o psichico: qualcuno, dunque, che “ci manca di rispetto” o che “ha superato il limite”; la reazione aggressiva ci serve per “rimettere l’altro al suo posto”: tutti modi di dire che indicano bene come al centro ci sia proprio il tema della protezione di ciò che sentiamo nostro, a partire dall’immagine che ognuno ha di sé.

Ma perché oggi il tasso di aggressività sociale è così elevato? Perché le modalità relazionali sono diventate così aggressive a tutti i livelli? Credo che il problema sia legato a un modo di considerare se stessi che allarga a dismisura ciò che riteniamo essere il nostro territorio, senza che sappiamo riconoscere la legittimità del territorio altrui: quell’infantile “io/mio” dilaga senza trovare un limite nella capacità di fare spazio all’Io dell’altro. Questa capacità non si improvvisa, come ben sa chi cerca di contenere la prepotenza fisiologica dei tre anni; richiede una paziente educazione all’empatia, che è appunto il sapersi mettersi dal punto di vista dell’altro. Per fare questo è necessario però che il mondo degli adulti torni a scoprire il valore della relazione, abbandonando la logica del “tutto intorno a me”.

Fonte: Avvenire