di Laura Badaracchi
Gli esperti: se ai giovani vengono a mancare modelli familiari rassicuranti, sostituiscono il mondo virtuale al mondo reale, con conseguenze disastrose. Le regole? Servono per essere infrante
Conoscere, capire, curare le nuove patologie che complicano la vita degli adolescenti di oggi e delle loro famiglie, in un momento in cui genitori e insegnanti sembrano non riuscire più a comunicare con i propri ragazzi. Questo l’obiettivo degli psicologi e psicoterapeuti Giorgio Nardone con Elisa Balbi e Elena Boggiani, che firmano “Adolescenza in bilico. Come stanno gli adulti di domani. Le psicopatologie emergenti e la loro terapia in tempi brevi”, pubblicato da Ponte alle Grazie (pp. 360, € 16,00).
«I giovani, a cui spesso vengono a mancare i modelli rassicuranti che un tempo ne accompagnavano la crescita, devono fare i conti con un mondo dove il virtuale si sostituisce al reale, minandone le sicurezze e togliendo loro la possibilità di un confronto diretto con le sfide della vita; la recente pandemia non ha fatto che accrescere questo senso di incertezza. La risposta degli adolescenti può diventare allora disfunzionale, incarnandosi in una serie di disturbi che impattano fortemente non solo sulla loro vita, ma anche su quella delle loro famiglie», chiariscono gli esperti. «Che si tratti di disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi dell’alimentazione, di comportamenti legati al bullismo o di fobia sociale, di dipendenze sotto varie forme, fino al caso estremo dei tentativi di suicidio», la terapia strategica (Nardone con Paul Watzlawick ha fondato il Centro di terapia strategica che ha oltre 20 sedi nel mondo) ha sviluppato una serie di protocolli «a misura di adolescente» per accompagnare i ragazzi e le loro famiglie con il dialogo terapeutico a trovare in sé stessi gli strumenti della propria guarigione.
In famiglia i rapporti sono caratterizzati «da rapidità ed eccesso: “fammi”, “mi devi dare”, “lo voglio adesso” sono alcune delle parole d’ordine che, secondo il pediatra toscano Paolo Sarti, gli adolescenti utilizzano con successo per ottenere ciò che desiderano da genitori fin troppo impauriti dalle possibili conseguenze di un “no” o dalle frequenti minacce di gesti “estremi” in caso di un possibile banale divieto. Ma è proprio così che i nostri adolescenti gridano con forza la necessità di quei limiti che non sono in grado di autoimporsi e di quelle regole che, se assenti, impediscono loro di ribellarsi a qualcosa, lasciando quindi incompleto il primario compito della propria evoluzione», sottolineano gli autori. «L’iperprotezione familiare e sociale contribuiscono quindi alla fragilità del giovane. Alla deresponsabilizzazione generalizzata si accompagna una richiesta ai ragazzi di assumersi delle responsabilità troppo elevate per il loro livello di capacità e di sviluppo emotivo, cognitivo, ma soprattutto esperienziale. Il vertiginoso aumento di condotte auto ed etero lesive è solo la più eclatante manifestazione di una contraddizione continua di messaggi inviati da un mondo in cui dominano forme di espressione di sé sempre più esasperate».
In questo contesto, la violenza «diventa un modo per gestire le emozioni, sia nel senso della ricerca di sensazioni forti che di sedazione delle sensazioni di dolore o di rabbia percepite come non controllabili. All’assenza di regole e alle mancate conseguenze dei propri gesti inadeguati o al limite, in un contesto iperprotettivo sia familiare che sociale, si accompagna una sorta di giustificazione a priori degli agiti violenti, sempre più frequenti ed esasperati. Giovani incoscienti e irresponsabili che giungono ad atti estremi di cui sembrano ignorare gli effetti».
Così, sempre più spesso, «la normale aggressività adolescenziale, intesa come naturale spinta a crescere e mettersi alla prova, sta superando i confini e si è trasformata in violenza dentro e fuori la famiglia».
A seconda del modello di famiglia, diversa sarà la reazione violenta degli adolescenti. «Nella famiglia con modello iperprotettivo, in caso di fallimenti sentimentali, relazionali o scolastici, il ragazzo può scaricare la propria frustrazione prima nel contesto familiare attraverso condotte aggressive. La violenza fa sentire il ragazzo più forte e potente rispetto alla sensazione di impotenza provata nel mondo esterno. I genitori, preoccupati, tendono a loro volta ad amplificare i comportamenti iperprotettivi e, con le migliori intenzioni, diventano ostaggi dei propri figli». Questi genitori-vittime «diventano complici del problema, contribuendo a incrementare l’aggressività del figlio anche al di fuori delle mura domestiche, in particolare su persone più fragili o appartenenti a minoranze». Invece, «dove domina il modello sacrificante, l’adolescente sfoga tutta la propria rabbia e il proprio senso di fallimento aggredendo in modo sistematico uno o entrambi i genitori che, sacrificandosi, diventano i parafulmini della sua frustrazione. Il genitore, immolandosi come una vittima, crede di poter evitare o contenere l’aggressività del figlio. E la violenza si eleva a potenza, diventando un tratto costitutivo dell’interazione e aumentando, di nuovo, la tendenza da parte del ragazzo a replicare questo tipo di relazione vittima-aguzzino all’esterno della famiglia».
Ancora, nelle famiglie con modello democratico permissivo «l’adolescente utilizza la violenza per ottenere ciò che desidera attraverso lo scontro e diviene un vero e proprio tiranno della famiglia. L’atto violento diviene un modo per piegare il genitore e per trarne vantaggio, senza dover dare nulla in cambio. Per i genitori democratici, la pace è il bene supremo, quindi, preoccupati di evitare il conflitto, alimentano l’onnipotenza adolescenziale. Il rischio associato a tale dinamica è la generalizzazione di tale comportamento all’esterno della famiglia, con possibili comportamenti antisociali».
Esiste anche «il modello delegante, molto gettonato in un mondo in cui è sempre più difficile assumersi le proprie responsabilità» e che vede una delega genitoriale non tanto all’interno della famiglia: «Alla scuola e alla società viene data la responsabilità di far rispettare le regole, mentre i genitori dei coetanei vengono considerati come parametro di riferimento per stabilire a che ora far rientrare il proprio figlio a casa o se fargli fare un’esperienza o meno. Gli stessi genitori spesso si rimbalzano l’un l’altro le responsabilità, con il risultato di non poter rappresentare un fronte compatto di fronte alle richieste indesiderate di un figlio. In questo modo, essi non rappresentano un punto di riferimento stabile, le regole vengono messe costantemente in discussione e i figli trovano di volta in volta le strategie più idonee per riuscire a ottenere ciò che vogliono, vista l’inesistenza di figure di riferimento univoche».
Molto meno frequente il modello autoritario, ma non nelle famiglie immigrate, in cui «la violenza nasce come ribellione a un sistema familiare troppo rigido e chiuso al cambiamento, tale che all’aumento dei comportamenti aggressivi del ragazzo corrisponderà un irrigidimento dei vincoli da parte dei genitori, con conseguente braccio di ferro, che possono generare escalation di violenza».
Nel modello intermittente, che sembra essere oggi il più frequente e il più frequentemente associato al disturbo borderline, «le risposte del genitore al aggressivo non sono ferme, decise e compatte, ma disorganizzate e confuse. Questo impedisce di canalizzare costruttivamente le emozioni del ragazzo e crea un contesto talmente confuso che l’unica costante è la violenza del ragazzo». Al contrario, «l’esistenza di una gerarchia funzionale sufficientemente solida è fondamentale per il funzionamento dei rapporti familiari, soprattutto in età adolescenziale. I genitori dovrebbero esercitare la propria autorevolezza in modo flessibile ma anche determinato, senza eccessive disparità di potere tra madre e padre e sempre in accordo».
Fonte: Avvenire