di Massimo Angelelli, Direttore Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute

Tra le esperienze della vita più segnanti c’è la sofferenza umana, cioè quella condizione che altera il mio equilibrio e mi mette in una condizione di insicurezza, di vulnerabilità. Il primo istinto può essere quello di chiedere aiuto, di rendersi conto che da soli non è bene affrontare questi passaggi esistenziali. Un bambino istintivamente ricorre alla mamma, un adulto cerca un aiuto nell’amico o nella persona amata, un anziano lo spera anzitutto dai figli. Ecco, quel desiderio spontaneo che spinge gli uomini e le donne sofferenti nasce dalla loro natura sociale. La malattia e la sofferenza feriscono, oltre al corpo, la nostra relazionalità, spontaneamente andiamo alla ricerca di una cura che sia anche relazionale, affidandoci a chi pensiamo possa sollevarci dall’esperienza dolorosa.

Ecco perché papa Francesco apre il messaggio per la Giornata mondiale del Malato di domenica 11 febbraio 2024 con una citazione di Genesi: «Non è bene che l’uomo sia solo» (2,18), ricordandoci che, data la sua natura sociale, la cura del malato passa anche attraverso la cura delle relazioni. Nel tempo e nel contesto culturale in cui viviamo, immersi in una inarrestabile tendenza individua-lista, questa parola illumina la fatica del sofferente così come quella del curante. Entrambi stanno vivendo un tempo che necessita gesti di cura. Il Papa ci ricorda che la prima cura di cui abbiamo bisogno è la vicinanza, piena di compassione e tenerezza.

Nella società scientifica, consacrata all’analisi dei dati per poter capire i fenomeni, sembra quasi banale o romantico tornare a parlare di tenerezza. In realtà le due cose non si oppongono minimamente ma vanno integrate in un nuovo paradigma di cura: la ricerca scientifica e la clinica offrono la terapia necessaria a combattere il dolore e la malattia; i curanti sono i professionisti della salute, capaci di coniugare scienza e arte del curare; la relazione diventa il luogo di incontro per l’accompagnamento dell’esperienza del sofferente, con gli strumenti più umani che abbiamo, cioè compassione e tenerezza; i familiari, gli amici, gli affetti sono anche loro portatori di una dimensione empatica che sostiene e accompagna il sofferente contro ogni solitudine o abbandono.

In un Paese come il nostro in cui la sanità offre ancora livelli molto alti di assistenza e cura, anche se in modo non equo nelle diverse regioni, abbiamo una crisi di modelli di cura prima che di finanziamenti o gestioni sanitarie. La riprova è nella differenza tra l’essere curati e il sentirsi curati: la differenza è la mancanza di quello spazio empatico che riempie i gesti di cura con un approccio necessario affinché la presa in carico integrale della persona sia piena ed efficace. Questo farà bene anche al curante, perché la gratitudine che le persone assistite restituiscono a chi li ha sollevati dalla sofferenza è il primo e più importante premio di cui c’è bisogno per continuare a svolgere un servizio all’umanità sofferente, che è usurante. Essere esposti ogni giorno al dolore e alla sofferenza dell’altro necessita di un rafforzamento continuo del movente ideale che porta alla cura dei bisogni di salute.

Una medicina efficace, un Servizio sanitario nazionale efficiente, una adeguata allocazione delle risorse pubbliche necessitano di modelli di cura che siano sostenibili in ogni senso. Ma soprattutto capaci di prendersi cura delle persone sofferenti nel modo giusto. Non in qualsiasi modo. Il Samaritano del brano evangelico ( Lc 10, 25-37) viene principalmente ricordato per i suoi gesti: si è fatto prossimo, ha fasciato le ferite, ha accompagnato il sofferente, si è assicurato che la cura fino alla guarigione. Ma tutto è iniziato con una attenzione, ha rallentato il passo, ha rinviato i suoi progetti, ha offerto ascolto al grido di dolore. Papa Francesco ci invita ad adottare lo sguardo compassionevole di Gesù: «Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato o scartato». Un comportamento a cui siamo chiamati tutti, in forza di quel comandamento che ci chiede di amare chi abbiamo accanto, a cominciare dai più vulnerabili. «Gli ammalati, i fragili, i poveri sono nel cuore della Chiesa e devono essere anche al centro delle nostre attenzioni umane e premure pastorali». Andiamo, ci aspettano.

Fonte: Avvenire