di Assuntina Morresi

I ginecologi che scelgono di non interrompere gravidanze sono «troppi», come si sente dire? I dati del Ministero della Salute mostrano che non è così

Sembra impossibile riuscire a parlare di aborto senza polemizzare. C’è però un’evidente volontà di farlo a tutti i costi, anche quando non ve ne sarebbero i presupposti, come ad esempio avviene periodicamente per l’obiezione di coscienza a proposito di aborto, nonostante i dati delle istituzioni competenti come il Ministero della Salute: la sua relazione annuale sull’applicazione della legge 194 è fra le più complete al mondo, anche grazie alla sinergia con l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), l’Istat e le Regioni.

Risale al 18 luglio 2013 l’istituzione di un Tavolo tecnico presso il Ministero della Salute a cui sono convocati gli assessori regionali e l’Iss, per «uno specifico monitoraggio sulla piena applicazione di tale legge su tutto il territorio nazionale, avviando una rilevazione ad hoc sulle attività di Ivg e sul relativo esercizio del diritto dell’obiezione di coscienza dei soli ginecologi, a livello di singola struttura di ricovero e nei consultori familiari, e individuare eventuali criticità».

I risultati sono stati illustrati per la prima volta nella relazione al Parlamento del 15 ottobre 2014, e da allora tutti gli anni abbiamo un quadro dettagliato e rigoroso sull’obiezione di coscienza in Italia – a differenza di “studi” approssimativi recentemente pubblicizzati, che hanno bellamente ignorato dati già esistenti. La relazione al Parlamento si occupa della situazione regionale perché per legge è la regione ad assicurare il “servizio Ivg”, organizzandolo come meglio ritiene: centralizzandolo oppure rendendolo diffuso sul territorio. Ovviamente il Ministero non può imporre un modello organizzativo unico ma deve vigilare sull’offerta del servizio, e non può certo garantire che in ogni struttura sanitaria siano presenti tutte le specialità (ginecologia, cardiologia, oculistica, etc.).

Il Tavolo tecnico, che ha lavorato sicuramente almeno per tutta la durata del mandato del ministro Lorenzin (2013-18), ha sempre avuto i dati relativi a ogni singola struttura, fornendoli su richiesta.

Ma veniamo ai numeri. In tutte le relazioni al Parlamento, dal 2014, per l’obiezione di coscienza vengono presentati tre parametri, calcolati per regione: il primo riguarda il numero di sedi fisiche (stabilimenti) con reparto di ostetricia e ginecologia e di quelle in cui si pratica Ivg. Il secondo riguarda il numero di punti Ivg per ogni 100mila donne in età fertile, comparati ai punti nascita rispetto alla stessa popolazione. Sappiamo che gli aborti sono mediamente il 20% delle nascite, ma il numero di punti aborto rispetto ai punti nascita non rispetta la stessa percentuale: in diverse regioni lo supera, e la media nazionale mostra che sono praticamente uguali (questo parametro non compare nell’ultima relazione al Parlamento). Il terzo parametro dice delle ore lavorative a testa per ogni non obiettore, cioè il carico di lavoro che ci sarebbe se tutti i non obiettori eseguissero aborti: considerando 44 settimane lavorative all’anno, la media nazionale di Ivg eseguite settimanalmente era 1,4 nel 2012, scesa a 1,1 nel 2019. La relazione mostra poi, per ogni regione, le medie e gli scostamenti all’interno del territorio, intesi come valore massimo degli aborti eseguiti nelle singole strutture: nel 2019 in 4 regioni – Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia – ci sono sedi con un carico di lavoro superiore alle 10 Ivg a settimana (con un massimo di 17,7 in una struttura siciliana).

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