Mors certa, hora incerta: è la cifra dell’umano che ci interpella in queste ore, laddove disumano sarebbe il sintagma contrario mors certa, hora certa, al quale si possono ricondurre le tragiche esperienze del condannato a morte e del suicida (in fondo accomunati da un analogo destino). Le declinazioni del rapporto mors/hora sono state messe in campo da Vladimir Jankélévitch, nel suo famoso libro sulla morte (Flammarion, Paris 1977). L’incertezza dell’ora rende preziosa la vita e irreversibile il tempo e va oltre ogni intento tecnicamente programmato, in quanto ci pone di fronte alla morte come mistero. E d’altra parte si tratta del mistero stesso dell’uomo, che non può essere ritenuto e pensato solo nell’ambito ‘religioso’, in quanto distogliere lo sguardo da esso toglie ogni speranza anche a chi fosse non credente o diversamente credente. Jankélévitch, filosofo laico e di appartenenza ebraica nonché d’ispirazione bergsoniana, ha ben compreso che il dono del pensiero d’ispirazione cristiana alla visione, che l’umanesimo può far propria, sta proprio nell’orizzonte della certezza della morte (per cui l’uomo è stato definito, da Martin Heidegger, Sein zum Tode, l’essere per la morte), ma anche nell’incertezza dell’ora, sicché l’istante mortale si situa fuori da ogni categoria e rifiuta ogni individuazione, sicché anche la formula mors certa, hora certa contiene un ma: sed ignota, fere abscondita (ma sconosciuta, quasi nascosta) come il Dio di Pascal.

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