di Massimo Calvi

Quando ci si chiede come mai in Italia da trent’anni a questa parte nascano sempre meno bambini, perché la crisi strutturale della natalità nel nostro Paese stia facendo mancare i giovani che lavorano, aumentare i costi previdenziali e sanitari, e in prospettiva farà perdere sempre più quote di Prodotto interno lordo, ci si dimentica di considerare un aspetto: questa crisi è voluta. Certo, non nei termini in cui si manifesta, ma in una delle sue cause principali e strutturali: la fragilità della famiglia con figli.

C’è un filone di pensiero molto ben rappresentato a vari i livelli, quasi un movimento trasversale anti-famiglia, che da anni sembra lavorare contro la composizione di un quadro coerente di misure per sostenere la formazione e il mantenimento dei figli. Non si tratta di scenari complottisti, è qualcosa di molto semplice e a tratti involontario. Agli anti-famiglia non piacciono le coppie con figli, soprattutto se questi sono più di uno o due, mentre la famiglia numerosa viene “accettata” solo se in condizioni economiche tali da doversi rivolgere agli sportelli Caritas, oppure se è frutto di un contesto in cui la ricchezza patrimoniale è tale da rendere superfluo lavorare, se non come opportunità relazionale e di realizzazione di sé. La famiglia semplice con 2-3-4 figli, tipo quelle che si incontrano in Francia, Germania, Danimarca, Svezia… e che in estate varcano le Alpi e calano a vivacizzare i nostri campeggi, no, quelle proprio no.

Come si riconosce il movimento anti-famiglia? Non è difficile, perché è rappresentato da tutti coloro che hanno sinora impedito al sistema fiscale italiano di evolvere per consentire risparmi di livello europeo (come in Francia, Germania… ecc.) alle coppie che generano figli. Oppure, più di recente, da chi ha cercato in tutti i modi di ostacolare la riforma dell’Assegno unico, rendendolo complicato nella struttura e limitato nelle somme stanziate. Il movimento anti-famiglia ritorna poi a farsi sentire quando, ad esempio, riemergono proposte come il quoziente familiare. Il quoziente è un principio che permette di pesare incentivi o misure di sostegno alla famiglia sulla base del numero dei suoi componenti. In Francia il quoziente è fiscale: più sono i figli a carico e meno tasse si pagano. Il vantaggio minimo è di 1.500 euro a figlio, il cosiddetto plafond, ma può salire al crescere dei redditi dichiarati, conservando la progressività dell’imposta. Con la nascita del terzo figlio l’aliquota fiscale può calare al 10%, un po’ come la flat tax italiana per gli autonomi, con la differenza che a fare differenza è la prole.

Il quoziente è un principio, non una formula codificata, può essere costruito come si preferisce. Un’opposizione ideologica ha poco senso. Se si volesse fare un vero paragone tra il fisco italiano e quello francese, in base all’impostazione e ai risultati ottenuti, si potrebbe dire che mentre in Italia il sistema tributario offre considerevoli incentivi a evadere, a mettere a rendita immobili, a conservare e trasferire patrimoni di generazione in generazione senza beneficio per la comunità, in Francia le tasse favoriscono soprattutto una demografia vitale e la nascita di bambini. Un risultato simile, per dire, lo ottiene anche il fisco tedesco, che con un sistema però differente, lo “splitting”, unito a deduzioni fiscali e assegni veramente universali per i figli, che garantisce comunque entrate/risparmi anche di 2.500-3.000 euro a figlio rispetto a un single. Non è detto che vi sia una relazione di causalità, ma il tasso di fecondità in Francia è di 1,8 figli per donna, in Germania di 1,6, in Italia di 1,24.

Certo, in Francia e Germania non sono solo gli aiuti economici a sostenere le famiglie, ci sono anche gli asili nido concessi come diritto e a prezzo calmierato per tutti, non solo per pochi, e ci sono congedi retribuiti e premi più alti per chi si prende cura dei figli, e via dicendo. Resta il fatto che non appena in Italia si parla di quoziente o di qualcosa di simile, entra subito in gioco un argomento paralizzante: il quoziente disincentiva il lavoro femminile, e avvantaggia i ricchi. Fine. Discorso chiuso. Il movimento anti-famiglia ha emesso la sua sentenza. E tutto resta com’è.

Ma è veramente così? Diciamo che in teoria, potenzialmente, uno sconto fiscale legato ai figli può spingere chi in famiglia ha il reddito più basso, in genere le donne, a rinunciare a lavorare, e occuparsi della prole. In teoria, però. Perché in realtà è difficile pensare che una donna rinunci, poniamo, a un lavoro e a 15.000 euro di reddito a fronte di un risparmio di poche centinaia di euro in un anno ottenuto solo dal capofamiglia; e se lo fa, probabilmente, è perché le condizioni di lavoro sono talmente opprimenti e i servizi di cura per i bambini talmente carenti che restare a casa diventa purtroppo una scelta razionale, per quanto subìta. Può anche darsi che una donna, a fronte di un bel risparmio ottenuto dal marito con reddito alto, rinunci a far fruttare la sua laurea o tutto quello per cui ha faticato e si è impegnata nella vita, per occuparsi solo della famiglia e seguire i figli. Statisticamente, sui grandi numeri, questo può accadere. In tal caso varrebbe però la pena provare a capire quanto una scelta sia frutto di un condizionamento esterno e quanto invece un’opzione esercitata liberamente.

Se si guarda quello che accade nella realtà, ci sono altre considerazioni da fare. In Francia il tasso di occupazione femminile è del 64,5%, in Germania del 72,2%, in Italia del 49,4%. Di fronte a questi numeri ci si potrebbe chiedere che cosa hanno fatto finora gli anti-famiglia per aiutare le donne in Italia a partecipare al mercato del lavoro e, in seconda battuta, come mai a fronte di così tanti aiuti fiscali o economici legati ai figli, all’estero ci sono molte più donne che lavorano rispetto all’Italia. Forse perché l’offerta di impiego è più ricca? Forse perché le imprese e il contesto le opprimono meno? O perché le famiglie riescono a pagare poco l’asilo nido anche se non sono indigenti? Oppure, ancora, perché congedi e pratiche di conciliazione sono molto più diffuse e importanti? E non sarà invece che, in fin dei conti, all’estero gli sconti a chi ha figli sono veri, solidi, generosi e universali e rientrano in un quadro completo e organico di misure?

Molti indizi dicono che è così. A partire dal numero delle famiglie con più di 3 figli: in Francia e Belgio, dove vige il quoziente, sono il 16,2%, in Germania il 12%, in Italia il 7,3%. La media in Europa è il 12%. Nella classifica dei nuclei con 4 o più figli (0,6%) l’Italia è invece addirittura ultima in Europa.

L’idea che dietro all’opposizione al quoziente come principio vi sia un approccio ideologico e strumentale si rafforza. In effetti, non sono finora emerse grandi obiezioni sull’Assegno unico e universale (Auu), la cui progressività accentuata potrebbe rappresentare a sua volta un disincentivo al lavoro femminile. Peraltro l’Auu potrebbe persino rivelarsi un ulteriore incentivo all’evasione fiscale, tra i tanti che l’Italia già contempla, visto che l’importo cala sensibilmente sopra i 15.000 euro Isee, in un contesto in cui la distanza tra gettito Irpef potenziale e gettito reale di autonomi e imprese è attorno al 70%.

L’Italia ha bisogno di mettere in piedi un sistema di welfare al servizio della famiglia di dimensione europeo, accelerando ad esempio il Family Act, e contestualmente di riformare il sistema fiscale in modo che sia generoso e universale verso tutte le coppie che mettono al mondo figli, non solo le più bisognose o quelle che più evadono: l’esperienza del welfare familiare in Europa insegna che le politiche per la natalità funzionano se non si fermano al solo obiettivo di contrastare la povertà. Insomma, si chiami Quoziente alla francese, Splitting alla tedesca o Fattore famiglia all’italiana (la proposta del Forum delle famiglie) non importa, la cosa decisiva è che possa partire una riforma coerente con l’obiettivo primario di contrastare l’inverno demografico e restituire con gli interessi un po’ dell’equità fin qui sempre negata alle famiglie.

Per fare questo andrebbero evitate posizioni strumentali, che hanno l’effetto di conservare un sistema non sempre capace di offrire condizioni di vita e di lavoro dignitose alle persone, ragione per cui chi può se ne va a studiare, lavorare e poi a fare famiglia altrove. E non serve discettare di “meritocrazia”. Occorre un’azione riformatrice seria, capace di guardare alla famiglia, anche nella sua forza relazionale, come a una risorsa positiva per lo sviluppo del Paese.

Fonte: Avvenire