di Giorgio Campanini

Le politiche familiari servono e sono urgenti. Ma serve anche altro Da qualche tempo è in atto un vivace dibattito sulla denatalità, di cui l’Italia soffre ormai da tempo, e sulle decisioni da affrontare per rimuoverla o almeno per ridurla. L’attenzione prevalente è stata accordata alle ecessarie politiche familiari (sinora, e da 40 anni, sostanzialmente assenti) insistentemente – ma sempre invano – richieste dai maggiori esperti di problematiche demografiche e anche, nel suo piccolo, da chi scrive queste note. Che ora, però vorrebbe soffermarsi su un aspetto della denatalità che rischia di rimanere troppo fuori della luce dei riflettori, che si concentrano soprattutto sulle statistiche, sempre più inquietanti, riguardanti il tasso di fecondità delle famiglie italiane.

Non vi è dubbio sul fatto che una delle cause della denatalità sia rappresentato dal crescente costo dei figli in presenza di un pressoché totale disinteresse dello Stato; ma le cause di questo ‘deserto’ della denatalità sono assai più profonde e proprio per questo si dovrebbe ampliare l’orizzonte della riflessione in atto sul problema demografico. Quello derivante dai figli è un ‘costo’ non soltanto materiale, ma anche e soprattutto ‘spirituale’: avere un figlio, farlo crescere, farlo studiare, inserirlo infine nella società implica un impegno che non è soltanto economico. Significa accettare l’inevitabile limitazione dei propri stili di vita, avere meno tempo per il soddisfacimento dei propri interessi, incontrare problemi nei propri movimenti: nonché – ma solo alla fine – subire una riduzione delle risorse economiche disponibili. In molti casi il primo genere di costi, quelli di tipo economico, è assai più facile da pagare che non il costo (in senso lato) relazionale.

Avere un figlio significa per la donna un condizionamento assai forte per un minimo di sei mesi (prima e dopo la nascita): più difficile libertà di movimenti, fine delle serate con le amiche, ricorrenti disturbi non sempre lievi, perdita sia pure momentanea della ‘linea’ e della bellezza; ma alcuni condizionamenti riguardano anche l’uomo (se è consapevole dei suoi doveri paterni), e cioè rinunziare, o limitare, serate con gli amici, viaggi e incontri e così via. Per un periodo abbastanza lungo, dunque, anche un solo figlio condiziona la vita di famiglia; se poi i figli sono due, tre o più, queste componenti di disagio, questa inevitabile perdita di libertà, si fanno maggiormente pesanti.

Anche dal punto di vista economico, la nascita di ogni figlio comporta una forte riduzione delle risorse pro-capite: al limite, con un figlio si mantiene il tradizionale ‘benessere’, con due, tre, o più si rischia di rasentare la povertà e comunque ogni figlio che nasce può essere vissuto come un ‘impoverimento’ in termini di disponibilità di tempo e di risorse. Che in una società fortemente consumistica come quella italiana si accettino malvolentieri gli oneri legati alla paternitàmaternità è più che comprensibile (sta ad attestarlo anche il caso- limite, oggi non infrequente, di chi non vuole figli) e nessun pur doveroso e necessario sostegno economico potrà compensare i sacrifici che, assai oltre i 20 anni dei figli, i genitori sono chiamati a fare.

Ben vengano, dunque, i supporti materiali alle famiglie: sono necessari e urgenti (dopo i deplorevoli ritardi accumulati decennio dopo decennio). Non ci si illuda troppo, pur tuttavia, sui loro esiti, se non si verificherà un vero e proprio cambio di mentalità: recuperare il senso della gioia della bellezza (ma anche della fatica) dell’essere padri e madri e saper scorgere nella vita nuova che sboccia, nei piccoli che crescono, nei giovani che entrano nel mondo degli studi e del lavoro, un ‘capitale’ prezioso da trasmettere alla società del domani. La vita val bene una messa in questione delle false sicurezze.

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